A undici anni dallo scoppio della crisi finanziaria e a dieci dal fallimento di Lehman Brothers, ci si trova piuttosto d’accordo nel credere che il detonatore che provocò allora l’esplosione fu uno shock di natura interbancaria. Benché su questo punto il consenso sia generale, un recente articolo dello storico dell’economia Adam Tooze (rilanciato qui in Italia da Stefano Cingolani) ne rimette in discussione l’origine puramente made in USA. Del resto, senza analizzare nel dettaglio le singole vicende che portarono ai fallimenti a catena, basterebbe ricordare, come fa Tooze, che fu proprio una banca europea, BNP Paribas, a dare fuoco alle polveri chiudendo tre fondi d’investimento, diventati illiquidi, quel 9 agosto 2007. Ma si trattava, in realtà, di una semplice miccia: la materia esplosiva consisteva nei 700mila miliardi di dollari che componevano l’ammontare del credito interbancario, quantificabile come il 700% del Pil mondiale. Come si era arrivati a tanto?
Bertold Brecht, drammaturgo tedesco, scrisse che, in fondo, rapinare una banca non era un gran crimine, se confrontato con l’atto di fondarne una. L’affermazione non è solo abbastanza partigiana, ma anche piuttosto ingiusta: le banche, nessuno storico avrebbe molti dubbi a riguardo, hanno ricoperto un ruolo fondamentale nello sviluppo dei commerci, dell’industria e del risparmio nell’Età moderna. E lo rivestono tutt’ora: sono agenti di deposito e prestito, dotati di un’insostituibile funzione sociale, cioè quella di allocazione dei risparmi. I depositi bancari, infatti, vengono utilizzati per finanziare prestiti e investimenti, cioè vengono immessi nel circolo dell’economia reale. Non solo: essendo i prestiti attinti da una platea di risparmiatori molto ampia, i rischi di insolvenza si riducono notevolmente e consentono ai risparmiatori di poter conservare i propri averi in relativa sicurezza, anche perché è alla banca che spetta l’onere di vagliare la bontà di un investimento imprenditoriale e, solo a fronte di un giudizio positivo, l’erogazione di un prestito.
A partire dagli anni ’80 e ’90, la fame di credito aveva portato gli istituti finanziari a ingigantire l’attività di prestito, con un ritmo di crescita annuo doppio rispetto al Pil nominale mondiale. Per fronteggiare la richiesta di prestiti, le banche si trovarono nella prospettiva di dover allargare a dismisura la leva finanziaria, senza poter ricorrere a un aumento del capitale: i depositi non sarebbero bastati. La soluzione, in un certo senso, fu semplice: finanziare a debito l’attività di prestito. In che modo? Facendosi prestare risorse da altre banche o piazzando sul mercato i propri prodotti. E così, mutui e crediti, resi liquidi mediante la sottoscrizione di prodotti derivati o impacchettati in obbligazioni collocabili sul mercato azionario (in gergo: cartolarizzati), raggiunsero i mercati finanziari. Gli acquirenti potevano presentarsi come clienti al dettaglio, cioè privati risparmiatori, ma anche come investitori all’ingrosso, cioè investitori istituzionali, quali compagnie assicurative, fondi d’investimento e altre banche.
Questo cambiamento, conosciuto come “innovazione finanziaria”, oltre che rendere liquide le risorse del credito, avrebbe dovuto funzionare nella direzione di una diversificazione degli investimenti, specie nell’ambito dei mercati immobiliari, spesso legati a doppio filo con i sistemi bancari nazionali. Un esempio può aiutare a chiarire il concetto. Nel 1990, una stretta sui tassi d’interessi portò alla crisi del mercato immobiliare svedese: il crescente premio richiesto sui tassi non fu più sostenibile da parte di molte famiglie, i debiti non poterono più essere ripagati e il costo ricadde interamente sulle spalle delle sei banche nazionali e dei contribuenti svedesi, costando il 9% del Pil del Paese. Un sistema di maggiore integrazione bancaria avrebbe senz’altro spalmato il rischio su un numero di investitori più ampio ed evitato che i costi sociali venissero sostenuti dalla sola Svezia.
Il meccanismo di allocazione dei rischi, tuttavia, funziona solo a patto che la trasparenza riguardo i prodotti sia massima, così da fare in modo che chi si accolla i rischi ne abbia la massima consapevolezza. Nulla di tutto ciò accadde durante la crisi dei mutui americani. Banche come Bear Stearns e Lehman Brothers collocarono i loro prodotti sul mercato, senza però corredarli di un’attenta valutazione dei rischi. Le prospettive di guadagno e di liquidità offerte da questi prodotti – i quali, però, occultavano rischi ben più rilevanti di quelli attesi – li resero appetibili e finirono nella pancia di compagnie assicurative, banche e fondi d’investimento. Paradossalmente, il sistema di integrazione interbancaria diede a questo punto il grave effetto collaterale di trasformare la crisi in un’epidemia globale, che colpì le banche di tutto il mondo, da Londra a Tokyo, da Roma a Singapore, da New York a Berlino. Il grado di diffusione delle obbligazioni legate ai mutui si rivelò così esteso, che alcuni di questi titoli furono trovati addirittura negli investimenti fatti da un convento italiano di frati.