“Caro consulente, finora ho accumulato molte minusvalenze: potrei fare qualcosa per evitare di pagare troppe tasse sui miei investimenti?” Si tratta di una classica domanda che mi pongono molti nuovi clienti e le considerazioni su questo specifico argomento sono varie ed articolate. Proverò di seguito a spiegare alcuni concetti basilari e perché il ricorso ad un consulente finanziario autonomo potrebbe essere la soluzione ottimale.
Prima di individuare alcune possibili soluzioni, vorrei fare due riflessioni sul tema delle minusvalenze:
perché se ne parla diffusamente solo da pochi anni a questa parte, soprattutto come esigenza molto sentita da parte degli investitori italiani;
perché in generale possano esserci minusvalenze accumulate nella primavera dell’anno 2019, cioè esattamente dopo 10 anni di mercati complessivamente in crescita.
Alla seconda delle due domande è forse più facile trovare una risposta. Partiamo dal concetto di base: le minusvalenze si accumulano solo a seguito di vendite di strumenti finanziari ad un prezzo più basso rispetto al prezzo di acquisto (per semplicità ipotizzando di non avere costi di ingresso, di uscita o di transazione). Se la vendita di uno strumento finanziario si conclude con un guadagno oppure si mantiene l’investimento fino al momento in cui il prezzo di vendita supera quello pagato per l’acquisto, ovviamente non avremo la creazione di una minusvalenza. A fronte di mercati finanziari mediamente in discesa (come ad esempio negli anni 2001-2002 oppure nel corso della grande crisi del 2008) diventa senz’altro più facile concludere operazioni in perdita anche perché nel corso delle recessioni prolungate può essere utile vendere gran parte degli strumenti maggiormente rischiosi eventualmente anche con una perdita allo scopo di ridurre il rischio complessivo di portafoglio e per evitare ulteriori perdite, ovviamente ponendosi come obiettivo di rientrare a prezzi più bassi in seguito una volta superata la fase recessiva. Ma negli ultimi 10 anni riuscire ad ottenere delle perdite è risultato un’impresa estremamente difficile, dato che mediamente la maggior parte degli indici mondiali sono saliti.
Dal momento in cui la normativa vigente permette, in regime amministrato, di compensare le perdite con i guadagni nei quattro anni successivi, allo scopo di evitare di pagare la tassazione prevista sui guadagni in quantità superiore a quella massima, arrivare alla primavera dell’anno 2019 con delle minusvalenze significa sostanzialmente aver effettuato, negli ultimi quattro anni degli errori, che possono essere o di eccessiva rotazione degli strumenti in portafoglio o di scelte iniziali di determinati strumenti poco efficaci o poco efficienti che si preferisce vendere in perdita per sostituirli con altri ritenuti migliori, oppure, molto più semplicemente, per motivazioni emotive in generale riconducibili al mancato rispetto del corretto orizzonte temporale degli strumenti finanziari che erano stati inizialmente acquistati. Per alcuni investitori più sofisticati, si potrebbe anche trattare, eventualmente, del rispetto di precisi punti di uscita anche in perdita da determinati strumenti finanziari a fronte di una strategia predefinita inizialmente.
Da questo punto di vista, oltre al problema di recuperare le minusvalenze accumulate, sarà probabilmente opportuno rivedere molti aspetti relativi al proprio approccio personale agli investimenti nonché, eventualmente, a valutare interlocutori diversi rispetto ai precedenti.
La seconda riflessione sul tema delle minusvalenze riguarda il fatto che questo aspetto era francamente poco manifestato come esigenza dagli investitori fino a pochissimi anni fa anche se si tratta di una problematica che è sostanzialmente sempre esistita.
Una prima spiegazione riguarda certamente l’aumento delle aliquote di tassazione sugli strumenti finanziari che hanno goduto per molti decenni di valori di tassazione particolarmente bassi rispetto alla media europea: fino a qualche anno fa, infatti, accumulare € 10.000 di minusvalenze e non riuscire a recuperarle nei quattro anni successivi, significava sostanzialmente pagare € 1.250 in più di tassazione a fronte della vendita successiva in guadagno di altri strumenti finanziari che avrebbero pagato la tassa non più compensabile perché i tempi per il recupero erano ormai scaduti. Ma dal momento in cui moltissimi investimenti hanno visto aumentare l’aliquota di tassazione fino al 26%, evidentemente si è iniziato a ragionare maggiormente su questo aspetto.
Una seconda spiegazione riguarda il fatto che moltissimi investitori italiani erano e sono abituati ad acquistare titoli di Stato in collocamento e a portarli a scadenza, modalità che sostanzialmente non porta ad accumulo di minusvalenze o plusvalenze nel corso della vita dello strumento.
Una terza spiegazione può essere ricondotta al largo impiego di fondi comuni di diritto italiano per i propri investimenti, piuttosto che a strumenti di risparmio gestito di diritto estero: fino a pochi anni fa i fondi comuni di diritto italiano (quelli con codice ISIN che inizia con “IT”) prevedevano una tassazione interna allo strumento stesso (modalità che in molti casi ha portato in passato all’accumulo di crediti d’imposta all’interno del fondo non reinvestibili con facilità che sostanzialmente hanno danneggiato le performance dei sottoscrittori). Di fatto in questi casi veniva spiegato ai clienti di non doversi preoccupare della tassazione. Una spiegazione simile vale anche per le gestioni patrimoniali.
Per i fondi di diritto italiano la normativa è stata modificata pochi anni fa per uniformare la loro tassazione a quella dei fondi di diritto estero sottoscrivibili anche in Italia dal 1992; data la scarsa diffusione sul mercato dei prodotti di diritto estero per oltre 15 anni, pochissimi in passato si erano preoccupati delle problematiche relative agli aspetti fiscali dei fondi di diritto estero che già nel 1992, qualora venduti in perdita, creavano minusvalenze difficilmente recuperabili sia perché le banche corrispondenti e le società di gestione estere (tantomeno i distributori italiani) per molti anni sottovalutarono questo aspetto senza consegnare ai clienti la corretta documentazione fiscale utile alla successiva compensazione (anche perché nessuna norma lo imponeva), sia perché già allora, trattandosi di OICR, le minusvalenze generate dalla loro vendita non potevano essere compensate con successive vendite in guadagno derivanti da strumenti della stessa tipologia.
È quindi possibile che molti investitori italiani di Sicav e fondi esteri abbiano venduto in perdita negli anni passati senza una informazione doverosa e completa circa le modalità di possibile compensazione con altre tipologie di strumenti. Se la Sicav era stata “venduta” e non “acquistata” dal cliente, molto probabilmente la destinazione successiva quasi sempre era un nuovo fondo o una nuova Sicav che non permettono la compensazione fiscale con la minusvalenza generata dalla precedente vendita. La certezza è che vendendo in guadagno l’ultimo fondo acquistato al posto del primo venduto in perdita, si paga in totale una tassazione superiore al dovuto.
Pochi anni fa sono state introdotte in Italia numerose modifiche relative alla tassazione di fondi e SICAV uniformando sostanzialmente le modalità di prelievo fiscale, quindi è stata modificata la tassazione dei fondi comuni di diritto italiano, è stato considerato fiscalmente rilevante il passaggio (switch) da un comparto all’altro della stessa Sicav estera rendendolo tassabile nel momento in cui avviene ed è stata anche uniformata la tassazione degli ETF che in passato prevedeva due livelli differenti di tassazione, uno come redditi da capitale l’altro come redditi diversi (quest’ultimo, sempre in parte minima come importi, era compensabile).
L’insieme di queste modifiche a livello fiscale circa la tassazione in Italia di fondi comuni e SICAV ha creato non poca confusione sia tra gli addetti ai lavori sia soprattutto tra gli investitori. A dimostrazione di quest’ultimo aspetto è sufficiente ricordare che circola ancora su Internet una tabellina in parte errata che attribuisce agli ETF la possibilità di generare plusvalenze compensabili con minusvalenze precedenti quando in realtà le plusvalenze realizzabili sugli ETF sono oggi unicamente di una tipologia tale da determinare la tassazione in caso di vendita in guadagno e la generazione di minusvalenze in caso di vendita in perdita che NON sono compensabili con successive vendite in guadagno né di ETF tantomeno di fondi o SICAV.
Con un semplice esempio:
acquisto un ETF, un fondo comune o una Sicav per € 100.000 e lo rivendo dopo un certo periodo ad un prezzo più basso ricavando € 70.000 di liquidità e € 30.000 di minusvalenze
acquisto in seguito con € 70.000 un altro ETF o un altro fondo o SICAV che rivendo dopo un anno a € 100.000 ricavando una plusvalenza di € 30.000
questa plusvalenza di € 30.000 può essere tassata fino al 26% quindi, ad esempio nel caso di un ETF in obbligazioni societarie o di un fondo azionario, posso ottenere € 22.200 di risultato netto a fronte di € 7.800 di tassazione che in ogni caso viene pagata e non va a compensare le minusvalenze pregresse pari a € 30.000
il risultato finale sarà: € 100.000 inizialmente investiti che sono diventati € 92.200 di liquidità in conto corrente e € 30.000 di minusvalenze da compensare
nel caso si tratti di ETF, la minusvalenza viene caricata in automatico dall’intermediario nello zainetto fiscale (che è il conto apposito per tenere traccia delle minusvalenze in un rapporto amministrato) mentre se vendo in perdita fondi comuni o SICAV con alcuni intermediari dovrò anche prestare molta attenzione affinché la minusvalenza venga correttamente caricata nello zainetto fiscale.
La massiccia promozione di gestioni patrimoniali e polizze unit-linked che investono in fondi, Sicav ed ETF al loro interno, sostanzialmente maggiorando le commissioni complessive a carico del cliente, ha trovato una argomentazione commerciale plausibile proprio grazie alla possibile compensazione fiscale che risulta più difficile da realizzare qualora gli stessi strumenti siano comprati direttamente.
Molto probabilmente l’aver messo in rilievo in modo costante (con motivazioni prettamente commerciali) da parte di molti operatori del settore questa problematica, ha finalmente fatto ragionare i clienti in tal senso forse esagerando al punto tale che oggi alcuni investitori la ritengono una problematica essenziale che a volte cercano di risolvere dimenticando l’impostazione fondamentale del loro portafoglio e correndo quindi il rischio di incorrere in errori pur di riuscire a compensare le perdite accumulate.
Dopo questa lunga dissertazione iniziale, cercherò di ridurre i tempi di lettura delle possibili soluzioni per la compensazione delle minusvalenze.
Riprendendo l’esempio precedente, con € 30.000 di minusvalenze nello zainetto fiscale, potrò evitare di pagare troppe tasse se riuscirò in seguito, nei quattro anni successivi, ad ottenere fino a € 30.000 di plusvalenze realizzate vendendo le seguenti tipologie di titoli:
singole azioni, con plusvalenza derivante dalla vendita ad un prezzo più alto rispetto al prezzo medio di carico; eventuali dividendi percepiti vengono in ogni caso tassati;
singole obbligazioni, con plusvalenza derivante dalla vendita ad un prezzo più alto rispetto al prezzo medio di carico; eventuali cedole percepite vengono in ogni caso tassate;
singoli titoli di stato, con plusvalenza derivante dalla vendita ad un prezzo più alto rispetto al prezzo medio di carico; eventuali cedole percepite vengono in ogni caso tassate;
ETC ed ETN, venduti ad un prezzo più alto rispetto al prezzo di carico;
strumenti derivati (che peraltro non possono essere consigliati dal consulente finanziario autonomo in base alla vigente normativa);
certificati (certificates) di investimento.
Ricordando quindi la regola fondamentale che impone di non stravolgere la struttura del proprio portafoglio per rincorrere la compensazione delle minusvalenze a tutti i costi, è opportuno considerare che la possibile compensazione ottenuta con la vendita di titoli di Stato, ad esempio un BTP, richiede normalmente importi rilevanti investiti in tale direzione.
Riprendendo l’esempio precedente, ed ipotizzando di acquistare un BTP a breve termine (per evitare le scadenze lunghe ad esempio in una fase in cui un possibile rialzo dei tassi potrebbe essere eccessivamente penalizzante) dovrei necessariamente utilizzare un BTP con cedola nominale molto bassa, in modo da ottenere maggiormente il risultato dalle variazioni di prezzo piuttosto che dalla cedola, ma in ogni caso se dovessi investire € 100.000 per acquistare un BTP al prezzo di 100, qualora anche riuscissi a venderlo a 105, otterrei soltanto € 5.000 di plusvalenze che andrebbero a ridurre solo in parte i € 30.000 nello zainetto fiscale; acquistare scadenze più lunghe potrebbe risultare difficile da realizzare in funzione del profilo di adeguatezza di molti clienti e al tempo stesso potrebbe comportare un eccessivo aumento di rischio nel portafoglio.
Una delle soluzioni ottimali a questo punto è di ricorrere all’acquisto di certificati, che sono di fatto degli strumenti derivati cartolarizzati, assimilabili alle obbligazioni.
Si tratta di strumenti quotati sul mercato secondario e, per quanto riguarda l’Italia sui mercati SeDex di Borsa Italiana e Cert-X di EuroTLX, su cui sono complessivamente quotati oltre 3.300 strumenti di questo tipo senza dimenticare che il mercato principale in Europa per i certificati è la borsa tedesca su cui sono oltre 300.000.
I certificati si acquistano come qualsiasi altro titolo e beneficiano della liquidità garantita dal market maker; trattandosi a volte di certificati con quantitativi limitati o addirittura costruiti su misura e poi quotati per uno specifico cliente, potrebbe verificarsi la situazione, abbastanza rara, di certificati quotati soltanto in "bid" cioè per i quali è possibile soltanto la vendita da parte di coloro che già li possiedono ma non sono possibili acquisti ulteriori rispetto a quelli già effettuati che hanno esaurito il plafond complessivo.
Le due regole principali per chi acquista certificati sono:
acquistarli sempre ed esclusivamente sul mercato secondario dopo la loro quotazione evitando di acquistarli in collocamento in modo tale da evitare i costi impliciti, spesso molto elevati, che servono a retribuire la struttura distributiva; del resto ha poco senso acquistare in collocamento un certificato dal momento in cui l’offerta di quelli già quotati è decisamente più ampia e più variegata;
diversificare attentamente gli emittenti, dal momento in cui trattandosi di obbligazioni (ancorché di una tipologia particolare con maggiori tutele per gli obbligazionisti), dato che sussiste in ogni caso il cosiddetto rischio emittente che potrebbe in casi estremi avere difficoltà di rimborsare tutto o in parte l’importo investito; può essere utile in tal senso verificare l’esistenza di garanzie collaterali presenti in alcuni certificati.
Riprendendo l’esempio precedente, se i € 30.000 di minusvalenze sono state da poco realizzate, una soluzione potrebbe essere quella di reinvestire € 100.000 in una semplice struttura "tracker" cioè in un certificato che replica un indice in maniera lineare oppure realizza al suo interno una strategia specifica e di fatto segue un indice costruito alla stregua della gestione di un fondo comune a gestione attiva.
Se questo certificato, o meglio ancora, un paniere di certificati con strategie diverse dovesse arrivare dopo un certo periodo di tempo ed in ogni caso prima della scadenza della minusvalenza a generare € 30.000 di guadagni, la sua vendita porterebbe ad una plusvalenza di € 30.000 che verrebbe incassata lorda dal cliente azzerando di fatto le minusvalenze, indipendentemente dalla tipologie di titoli che le hanno causate e anche se si trattasse di minusvalenze generate dalla vendita di ETF, fondi o SICAV.
Questa strategia può essere realizzata presso lo stesso intermediario in cui è presente il dossier titoli e il relativo zainetto fiscale.
Nel caso in cui, invece, i € 30.000 di minusvalenze dell’esempio precedente siano stati generati in precedenza e non si sia riusciti a realizzare operazioni tali da compensarle fino ad essere vicini alla scadenza dei quattro anni e quindi alla perdita della possibilità di compensazione, i certificati di investimento e alcuni di loro in particolare potrebbero risolvere il problema, non in maniera definitiva, ma quanto meno permettendo di “posticipare” di altri quattro anni le minusvalenze accumulate.
Se ad esempio le minusvalenze stessero per scadere con la fine dell’anno 2019, ricorrere ad un investimento in certificati legati agli indici azionari potrebbe non essere sufficiente perché nel breve periodo i mercati selezionati tramite certificati potrebbero scendere o anche salire in misura insufficiente per compensare completamente la perdita.
Tra le innumerevoli forme di strutture di certificati esistono anche quelli che staccano delle cedole periodiche che possono essere di tipo incondizionato oppure soggette a possibili condizioni, da valutare attentamente caso per caso.
Alcune di queste cedole sono relativamente basse e possono essere utili all’interno di determinati portafogli ma nel caso della necessità di compensazione a breve termine di minusvalenze già accumulate, sarà possibile selezionare quei certificati caratterizzati dallo stacco di una maxi-cedola con le tempistiche sufficienti a determinare la compensazione necessaria.
Una caratteristica particolare dei certificati è che non solo la loro vendita con una plusvalenza compensa le minusvalenze pregresse ma anche le loro cedole possono compensare le minusvalenze accumulate nello zainetto fiscale.
Su questo particolarissimo aspetto occorre evidenziare che l’interpretazione della normativa viene ad oggi realizzata con modalità differenti a seconda dell’intermediario:
alcuni intermediari infatti non compensano immediatamente la cedola percepita da un certificato con le minusvalenze pregresse, ma conteggiano piuttosto tale compensazione rinviandola di fatto alla scadenza del certificato tramite la diminuzione del prezzo medio di carico;
altri intermediari compensano immediatamente la cedola staccata dal certificato versandola lorda sul conto del cliente e riducendo la minusvalenza nello zainetto fiscale.
Ovviamente, se le minusvalenze stanno per scadere, sarà opportuno non solo selezionare i certificati che presentano maxi-cedole iniziali elevate (anche nell’ordine del 15 o 20%) ma sarà anche necessario selezionare opportunamente l’intermediario che interpreta con la seconda modalità sopra evidenziata questo particolare aspetto.
Qualora intermediario in cui si ha il dossier titoli non dovesse permettere la compensazione immediata delle cedole dei certificati, trovandosi nella situazione sopra delineata di minusvalenze che stanno per scadere, la soluzione più logica sarà quella di individuare un diverso intermediario che consenta questo tipo di operatività e pertanto sarà inevitabilmente necessario chiudere la posizione con l’intermediario precedente per riuscire ad ottenere la certificazione fiscale attestante le minusvalenze pregresse che andrà consegnata in copia originale al nuovo intermediario su cui potrà essere acquistato il certificato o, meglio ancora, i certificati con la maxi cedola.
Nel momento in cui i certificati selezionati avranno staccato la cedola e conseguentemente il loro prezzo di mercato sarà sceso di pari misura potremo valutare due possibilità:
mantenere i certificati acquistati perché in ogni caso validi all’interno del portafoglio del cliente, con la possibilità quindi di rivenderli con ulteriore plusvalenza in seguito;
rivenderli subito dopo lo stacco della cedola, generando di fatto nuove minusvalenze che avranno altri quattro anni di tempo per poter essere compensate.
In ogni caso, le cedole staccate dai certificati selezionati perverranno per l’intero importo, quindi al lordo, sul conto corrente del cliente e parallelamente verranno ridotte di pari importo le minusvalenze accumulate in precedenza.
Per riuscire a realizzare nel migliore dei modi questa strategia di compensazione, potrà essere di aiuto il Consulente Finanziario Autonomo che per la sua particolare impostazione operativa è abituato a selezionare i certificati su tutto il mercato, senza essere in alcun modo vincolato alle indicazioni di qualche specifico intermediario, senza essere ovviamente in alcun modo vincolato al collocamento di specifici certificati e soprattutto, nell’ultimo caso delineato, con la possibilità di indicare quali siano gli intermediari più opportuni per realizzare la compensazione tramite maxi-cedole.
In conclusione, non è necessario spendere ogni anno elevate commissioni inutili in gestioni patrimoniali o polizze unit-linked (tranne nei rari casi in cui servano davvero) per compensare eventuali minusvalenze perché non è detto che si riesca a perdere soldi (e quindi il problema delle minusvalenze non si pone) ed in ogni caso si possono agevolmente compensare anche con migliaia di strumenti di varia tipologia, acquistabili facilmente presso ogni intermediario anche a costi molto bassi (online).
E’ assolutamente sconsigliabile stravolgere l’impostazione corretta del proprio patrimonio e le regole principali dell’investimento per rincorrere a tutti i costi la compensazione delle minusvalenze.