You can’t beat the market; ovvero: non c’è investitore che possa battere i mercati. Sembra un semplice slogan, una generica messa in guardia sulla complessità dell’enorme massa di transazioni sui mercati finanziari, che si stima siano ogni giorno più di un miliardo. In realtà, l’idea che i mercati non si possano battere (vedremo subito in che senso) è la logica conseguenza di un preciso modello economico. Parliamo della celebre “Ipotesi dei mercati efficienti”, formulata e sostenuta nel modo forse più incisivo da Eugene Fama, premio Nobel per l’economia. L’ipotesi è questa: i prezzi di mercato degli asset finanziari riflettono nel miglior modo possibile tutta l’informazione rilevante e disponibile sul loro valore.
L’efficienza che prendiamo in analisi, in gergo, è detta efficienza informativa. Va detto che, sui mercati finanziari, esiste almeno un’altra ipotesi di efficienza, quella allocativa, che riguarda invece la distribuzione ottimale delle risorse.
Dall’ipotesi dei mercati efficienti consegue che, a fronte delle informazioni disponibili, non esistono asset finanziari che, in un dato momento, siano sovra o sotto stimati. Pianificare una strategia di vendita o di acquisto, presumendo un’eventuale diminuzione di valore o apprezzamento dei singoli titoli, dunque, è inutile. O meglio: per perseguirne una in modo efficace, servirebbe una serie di informazioni, che tuttavia sono troppe e troppo frammentate. È per questo che, agli occhi degli investitori, l’andamento dei prezzi si presenta spesso come un cammino casuale (“random walk”).
Ma cosa distingue il mercato finanziario da una semplice sala scommesse? I prezzi, per l’appunto: essendo i prezzi i risultati di un’infinita serie di interazioni tra operatori economici, sono proprio essi a incorporare la maggiore quantità di informazioni possibili e, dunque, a essere gli indicatori di valore più affidabili. Si badi bene, però: pur incorporando la maggior quantità d’informazione possibile e disponibile, i prezzi non per forza sono indicatori esatti del valore di un bene. Ulteriori informazioni, magari celate o di là da venire, infatti, potrebbero sommarsi a quelle di cui dispongono gli operatori e cambiare di colpo le carte in tavola. In altre parole: l’efficienza dei mercati non garantisce del tutto riparo, come tutti gli operatori ben sanno, dalla volatilità.
Il corollario di quest’ipotesi, volendo essere coerenti, significherebbe bocciare una gestione attiva dei risparmi e optare per una forma passiva di investimento. In altre parole: meglio scegliere degli indici di un mercato che diano prospettive di crescita, piuttosto che creare fondi d’investimento trasversali.
Detto ciò, l’ipotesi dei mercati efficienti resta non solo un’ipotesi difficile da verificare, ma anche un modello attorno al quale si è generato molto disaccordo. Una delle obiezioni più note è stata quella formulata da un altro premio Nobel, Robert Shiller, che ha analizzato il mercato immobiliare statunitense degli ultimi 150 anni. Nel grafico analizzato da Shiller sono evidenti almeno due impennate di valore: la prima, nel secondo dopoguerra e la seconda a partire dagli anni 2000. Nel primo caso (post 1945), Shiller metteva in relazione l’aumento dei prezzi delle case con il boom demografico ed economico di quegli anni: nulla di strano, dunque – un caso di scuola della legge della domanda e dell’offerta. Nel secondo caso (inizio anni 2000), invece, Shiller – che pubblicò lo studio nel 2003 – notò che il valore delle case stava inspiegabilmente salendo a una velocità troppo rapida. La risposta, soltanto ipotizzata, fu confermata a distanzia di qualche anno: come aveva previsto, si era trattato di una gigantesca bolla immobiliare.

Il secondo esempio è tratto da un libro di un terzo Premio Nobel, Richard Thaler, un economista comportamentale. Thaler, come esempio emblematico per confutare l’ipotesi, prende in considerazione l’andamento di un fondo mutualistico di nome CUBA, composto per il 69% da asset americani e per la restante parte da fondi stranieri. Curiosità, ma essenziale per la nostra storia: nonostante il nome, tra il fondo e l’omonima isola non è mai intercorsa alcun tipo di relazione commerciale o d’investimento. Ebbene, a seguito dell’annuncio, da parte del Presidente americano Obama, dell’allentamento dell’embargo nei confronti di Cuba, il titolo omonimo subì un apprezzamento improvviso e del 70%. Gli investitori si erano lasciati clamorosamente trarre in inganno dal semplice nome del fondo.

Gli esempi presi in considerazione parlano chiaro, e dimostrano che i prezzi non sempre incorporano tutte le informazioni a disposizione (nel primo caso, la presenza di indebitamenti molto rischiosi), né quelle rilevanti (nel secondo, il fatto che gli investimenti non avessero niente a che fare con l’isola di Cuba). Eppure, se è vero che queste e altre osservazioni hanno portato a ridimensionare la presunta efficienza informativa dei mercati, per alcuni l’ipotesi nella sua sostanza continua a reggere: in fondo, come ha spiegato ancora Eugene Fama, si tratterebbe “soltanto” di anomalie temporanee. Recuperando i grafici degli andamenti proposti dai due economisti è evidente, dice Fama, che sul lungo periodo sono proprio i mercati, per quanto in modo improvviso, a riequilibrare il valore degli asset e farli attestare a livelli più ragionevoli.
Per Fama, ad esempio, il repentino sgonfiarsi della bolla delle dotcom riflette in pieno questo meccanismo di aggiustamento: le aspettative ottimistiche su numerose aziende furono duramente ridimensionate, tanto da renderne le azioni carta straccia; ma il crollo attuò una selezione necessaria, dalla quale emersero i grandi colossi dell’informatica. Il processo di price discovering, infatti, per quanto imperfetto e non immediato, sfrutta l’attività collettiva degli investitori, è capace di processare enormi quantità di segnali informativi e spesso corregge le aspettative di rischio o di guadagno degli operatori. Non c’è dubbio, quindi, che nella sua complessità il mercato, rispetto ai singoli investitori, attraverso il sistema dei prezzi, rappresenti un sistema informativo più efficiente.
Eppure, la questione non finisce qui: a complicare la situazione, nel meccanismo della formazione dei prezzi si inseriscono, infatti, molti elementi che l’economia finanziaria ha a lungo tempo disconosciuto; si tratta di atteggiamenti umani, studiati dalla scienza cognitiva e caratterizzati come vere e proprie distorsioni del nostro modo di ragionare, dei bias cognitivi che sono oggetto di studio da parte della finanza comportamentale (la buona notizia, per quanto essi rappresentino comportamenti del tutto controproducenti nella gestione dei nostri risparmi, è che il loro riconoscimento rappresenta il primo passo verso un potenziale disinnesco).
Aldilà di ciò, resta comunque un’ultima questione da capire: è possibile accompagnare i mercati nel loro percorso di efficienza informativa? O meglio: è possibile creare delle condizioni per ottimizzarne le dinamiche? La risposta è sì: grazie alla facilità delle comunicazioni i mercati stanno già sperimentando, in verità, forme di crescente efficienza informativa. Non solo: a seguito del Sarbanes-Oxley Act del 2002, un sistema di leggi che obbligava alcune categorie di imprese quotate a rendicontare più frequentemente i loro bilanci e certificarsi sulla solidità patrimoniale, il relativo mercato delle equity ha subito una drastica riduzione della volatilità. La morale è che rendere i mercati sempre più trasparenti, rischiarando le molte zone d’ombra che ancora restano, potrebbe fare sì che l’ipotesi dell’efficienza informativa dei mercati si avvicini a diventare una realtà di fatto e un modello interpretativo sempre più valido attraverso il quale orientare i propri risparmi.