Provate a immaginare: avete un’impresa e state facendo un bilancio delle vostre entrate/uscite. Ricavate molto, ma le spese sono sempre di più: così, spesso, ricorrete ai prestiti. Da un po’ di tempo, lo fate sistematicamente e i prestiti, vi rendete conto, ormai superano le entrate. Fate un calcolo e scoprite che quei prestiti o, per parlar chiaro, quei debiti stanno crescendo a una velocità 10 volte maggiore rispetto alle entrate. L’azienda, di fatto, sta fallendo. Ma non trattandosi di un’azienda, bensì della prima potenza economica mondiale, gli Stati Uniti, le cose si fanno più complicate. Le stime sul debito americano, che con la fine del mandato di Obama prevedevano uno sforamento della soglia dei 20mila miliardi nel 2020, sono state radicalmente corrette: il debito americano ha già raggiunto la quota di 21mila miliardi (105% del Pil) e secondo le proiezioni, nel 2028, arriverà a 33mila miliardi.
È vero: uno Stato non è un’azienda e tantomeno si comporta come un privato. Nessuna banca o carta di credito, del resto, permetterebbero simili livelli di indebitamento. La differenza sostanziale è che uno Stato è dotato di una Banca Centrale che può stampare moneta. Detto questo, bisogna ammetterlo: a partire dall’allarmante crescita del debito pubblico, l’economia americana dà segnali preoccupanti. Certo, anche nel 2017 è riuscita a incrementare il suo Pil, +2,5%; il prezzo da pagare, però, è stato un aumento del deficit di bilancio del 6%. Non solo: se la disoccupazione è al minimo (3,8%), la scarsità di lavoratori specializzati crea il rischio concreto che la disoccupazione torni a salire. Nel caso del debito dei privati, le cose vanno ancora peggio: crescono i debiti per l’acquisto di automobili, le carte di credito segnano sempre più passivi e sempre meno studenti sono in grado di onorare il loro debito – negli ultimi due anni, i casi di insolvenza sono saliti del 5% all’8%. Il tenore di vita può essere sostenuto solo così: con un debito di qualche trilione di dollari sulle spalle.
Aggiungeteci la combinazione di una politica monetaria di stabilizzazione da parte della Federal Reserve (che ha annunciato un rialzo dei tassi) e la politica di spesa pubblica, corredata dal taglio delle tasse, promessa da Donald Trump. Sulla cui amministrazione, si sa, incombe anche la guerra commerciale con la Cina. La quale è tutt’altro che un nemico qualsiasi: 1.050 miliardi di titoli di debito americano sono posseduti, infatti, proprio dalla Cina (al primo posto c’è il Giappone, con 1.100 miliardi). Se Pechino, nella peggiore delle ipotesi, dovesse rifiutarsi di acquistare i titoli di debito americano, l’unica soluzione alternativa sarebbe quella di trovare nuovi acquirenti. Con il rischio, o meglio, la certezza che per comprare i titoli, i tassi di interesse si alzerebbero. Il valore del dollaro scenderebbe, più o meno bruscamente, provocando un’instabilità sui mercati che si propagherebbe all’istante anche da questa parte dell’Oceano.
Con ciò, aldilà delle conseguenze di un’ipotetica guerra commerciale tra Cina e USA, lo scenario di una prossima recessione dell’economia americana è temibile tanto quanto è credibile. Il colosso del risparmio gestito PIMCO aveva previsto sarebbe arrivata per il 2022. Ma, dati alla mano, può darsi che accadrà anche prima. Quali pericoli corre il debito italiano? Molti, anche se paradossalmente gode di una migliore salute: se quello statunitense è di 167mila dollari per contribuente, in Italia la cifra scende a 53mila dollari. Le famiglie italiane, inoltre, hanno un patrimonio netto che le pone al 3° posto al mondo per ricchezza, contro quelle statunitensi, che si posizionano al 19° posto. Secondo il Sole 24 Ore, i patrimoni netti delle famiglie italiane sono, i media, pari a sette volte il reddito disponibile, sei volte il Pil, quattro volte il debito pubblico. La controprova? Negli Usa, le politiche di riduzione del debito sono normalmente collegate a piani di tagli alla spesa militare, al settore pubblico e sanitario. In Italia, si parla invece, spesso, dell’introduzione di un’imposta patrimoniale.
A far temere, perciò, non è il debito dei privati. La salute dell’economia italiana nel suo complesso, invece, sì: difficile credere che la flebile ripresa resisterebbe a una fase economica anticiclica, così come alla conseguente tempesta finanziaria, proveniente dagli USA. Una recessione americana, oltre a provocare l’incertezza sui mercati, renderebbe poi appetibile per la speculazione accanirsi sui punti deboli delle economie europee: nell’occhio del ciclone finirebbero anche i titoli di debito italiano. Così come accaduto nel 2011, lo spread sui titoli comincerebbe a salire e il rischio di default si farebbe di nuovo vicino.
Che fare, dunque? Una proposta avanzata da alcuni economisti, tra cui Marcello Minenna sulle pagine di Repubblica, riguarda l’emissione di titoli di debito combinata con il Quantitative Easing. Il QE, infatti, garantisce ancora per i prossimi nove mesi un programma di acquisti di 30 miliardi al mese e di 10 miliardi per gli ultimi tre. Per farlo fruttare al massimo però – e qui arriva l’idea – servirebbero titoli a scadenza più lunga: la loro durata temporale permetterebbe infatti alla BCE di congelare parte del debito pubblico degli Stati europei, mettendoli al sicuro dalla speculazione. Corredando il tutto con un sistema premiante per quei paesi che si impegnino nella riduzione del deficit, l’Europa darebbe un segnale di coesione e visione strategica in previsione di una possibile recessione. La speculazione avrebbe le armi spuntate. Un simile programma di acquisti, però, presupporrebbe una decisione politica collegiale dell’UE, che difficilmente si potrebbe realizzare nel breve periodo, o darsi del tutto. La disunità europea potrebbe tornare a costare cara.