Mentre scriviamo, il prezzo Brent al barile è 73,71 $ e il WTI, 68,04 $. La momentanea frenata della corsa in salita del greggio, avvenuta lo scorso venerdì, è tutta merito di Donald Trump. Con un Tweet che ricordava la «quantità record di petrolio presente ovunque», persino su navi viaggianti «a pieno carico», Trump ha cercato di ammonire il gruppo dei maggiori paesi produttori di petrolio, Opec compreso, che si riunivano in quel momento a Gedda. L’ordine del giorno del consesso: i preparativi della decisiva riunione che si terrà a Vienna il prossimo 22 giugno. A quel punto, stabilita una strategia da parte delle cordate guidate dall’Arabia Saudita (l’Opec) e dalla Russia (i cosiddetti paesi non-Opec), non certo propensi a mettere la marcia indietro sui prezzi del greggio, è chiaro che a Trump un semplice Tweet non basterà più.
Appena un anno fa, il prezzo Brent del greggio superava di poco i 50 $ e quello WTI era di poco inferiore ai 50. Nell’ultima settimana, con una crescita di 8 quasi 9 dollari al barile, si è raggiunto un record rimasto insuperato negli ultimi 4 anni. Il minimo storico, con cifre da Golden Age e ruggenti anni ante-shock petrolifero, era stato raggiunto nel 2016 con una media di 29 $ al barile. Una cifra quasi incredibile (come ha detto qualcuno: la cheap oil age), giustificata da un mercato energetico debole, da stimolare e grandi produzioni in eccesso. Più che produzioni, per la verità, scorte: le stesse che la scorsa settimana si sono rivelate in vistoso calo negli Stati Uniti (-1,1 milioni di barili contro i -0,5 milioni previsti) e che hanno innescato, in modo abbastanza pretestuoso, il rialzo repentino.
La crescita del prezzo della commodity, da parte sua, risponde abbastanza linearmente alle logiche di domanda e offerta. Nel 2016, l’Opec e gli altri produttori guidati dalla Russia, di fronte al crollo del prezzo del barile e alla diminuzione di produzione da parte del Venezuela e del Niger, messi in crisi dai prezzi così bassi, hanno varato un piano di tagli alle scorte che ha fatto apprezzare il valore del greggio. Dall’altro lato, è continuamente cresciuta la previsione di richiesta di petrolio, trainata dell’economia energivora cinese, ma anche dalla ripresa della produzione USA, passando da un fabbisogno di 92 milioni di barili al giorno nel 2014, a 99 milioni quest’anno.
A guidare le trattative sul futuro del prezzo dell’oro nero, sono Alexander Novak e Khaled al-Faleh, ministri dell’energia di Russia e Arabia Saudita. La convergenza di interessi di Mosca e Riyad sui temi energetici, negli ultimi due anni, a dispetto di quelli geopolitici, è stata irresistibile. La Russia, economia esportatrice di materie prime, è da tempo scalfita dai bassi prezzi del greggio (così come il Venezuela e la Nigeria). I sauditi, dal canto loro, pur potendo sopportare con maggiore elasticità i cambiamenti del prezzo, sono pronti a varare un ambiziosissimo piano di riforme e di stato sociale nel loro paese, nonché ad attrezzarsi ulteriormente dal punto di vista militare. Ma per fare entrambe le cose servono risorse, risorse e ancora risorse: facilmente rastrellabili, in quel paese, solo aumentando il prezzo del greggio.
Che anche l’aggressiva e destabilizzante politica estera di Trump sia responsabile della crescita dei prezzi del petrolio, è vero: la salita oltre i 60 $ al barile è cominciata proprio con l’attacco missilistico in Siria. Dal canto loro, anche gli USA potrebbero trarre vantaggio da un aumento del valore del greggio: la produzione e la raffinazione di Shale Oil americano è ai suoi vertici, per quanto i costi lo abbiano reso, fino a non molto fa, poco competitivo sul mercato. Una generale salita dei prezzi avvantaggerebbe le vendite. Senonché, esiste un risvolto della medaglia molto delicato che coinvolge l’industria dei trasporti, e buona parte dell’elettorato di Trump: il costo della benzina e dei carburanti. Non dimentichiamo che, negli Stati Uniti, milioni di persone macinano ogni giorno decine di chilometri in auto per raggiungere i loro posti di lavoro.
Fatto sta che l’Arabia Saudita si è detta favorevole ad alzare l’asticella e, in prospettiva, a portare il prezzo del petrolio a oltre 100 dollari al barile. Dietro questo traguardo esiste un obiettivo non troppo nascosto: risanare il bilancio di Saudi Aramco, in vista del collocamento (Ipo) in borsa del 5% della società. Una quotazione sul mercato regolamentato vertiginosa, che valuta il colosso petrolifero nazionale oltre i 100 miliardi di dollari. Sull’andata in porto dell’operazione, Riyad conta molto. Ma conta forse ancora di più su un ulteriore, ambiziosissimo progetto: un cartello capace di unificare i paesi Opec e non: una “Banca mondiale del petrolio” (ha scritto qualcuno) per poter controllare e rendere stabili i prezzi.
L’idea di un grande cartello capace di controllare le oscillazioni del greggio non dispiace ai fondi d’investimento e nemmeno agli investitori istituzionali che, non a caso, hanno privilegiato i futures e gli strumenti derivati su posizioni lunghe legate al greggio. Inoltre, l’idea di un mercato indicizzato su valori stabiliti e regolati da una governance internazionale piace sia agli investitori, che alle grandi compagnie energetiche quotate, le quali potrebbero sfruttare sistemi di assicurazione finanziari ancora più efficaci sull’eventuali oscillazioni di mercato. Infine, ancora la Cina: che è pronta a lanciare sul mercato dei futures i petro-yuan, cioè i primi strumenti derivati sul petrolio nominati in yuan e scambiati sullo Shanghai Futures Exchange in Cina. Con la prospettiva, prima o poi, di poter incidere direttamente sul valore della materia prima.