Alberto Marracino

Vai al mio profilo / Se mi conosci votami / Follow me

Consulente finanziario

Top MoneyController Financial Educational Awards
MoneyController Financial Educational Award
MoneyController Financial Educational Award
MoneyController Financial Educational Award
MoneyController Financial Educational Award
MoneyController Financial Educational Award
Alberto Marracino

Contattami

Chiedi un consiglio
Finecobank
Roma, Chieti, L'Aquila, Milano, Pescara, Teramo
Non dichiarato
Oltre a 10 anni
Master universitario di II° livello
54 anni
2718
28/09/2018

Contattami

Chiedi un consiglio

Vai al mio profilo

59 post - 57.532 letture


MISURARE IL VALORE DEL CONSULENTE FINANZIARIO (MEGLIO DI UN ETF)

Scritto il 16.06.2025

Un bravo consulente riesce a generare per il portafoglio del proprio cliente un extra rendimento tra il 3% e il 5% rispetto a quanto avrebbe fatto una gestione in autonomia. Può sembrare poco? Vediamo un esempio. Un cliente che gestisse in autonomia il proprio patrimonio finanziario e che fosse in grado non solo di evitare perdite ma di creare un valore, ipotizziamo in media del 2% annuo, dopo 20 anni, se avesse investito 10.000 euro si troverebbe con circa 12.200. Se tuttavia, invece del 2%, fosse stato in grado di aggiungere un 3%, con un 5% annuo sarebbe arrivato a oltre 16.000 e con un 7% avrebbe raggiunto quasi 20.000, di fatto raddoppiando il capitale. Vari studi attestano questa valutazione. Tra questi voglio fare riferimento, in particolare, a due studi di società di investimento americane, uno di Vanguard del 2018, “Quantifying your value to your clients” e uno di Russell Investments del 2025, “Value of an advisor”. Vanguard Lo studio di Vanguard indentifica 3 aree in particolare di generazione di extra rendimento: costruzione del portafoglio (1%-1,5), wealth management (0.5-1%) e coaching comportamentale (1,5%). Nella prima componente i generatori di extra rendimento derivano dalla scelta di strumenti più efficienti in termini di costi e di ottimale asset allocation. Nella seconda, appropriate operazioni di ribilanciamento del portafoglio e strategie di ottimizzazione fiscale rispetto al proprio fondo pensione sono i driver principali. Interessante notare come la terza componente sia responsabile di circa la metà di questa extra performance. Infatti, uno dei temi rilevanti della consulenza finanziaria rimane l’aspetto comportamentale del cliente durante le diverse fasi dei mercati. Mentre non è possibile modificare il comportamento dei mercati finanziari, al massimo provare a fare delle previsioni sugli andamenti, è invece possibile modificare il comportamento dell’investitore in risposta alle variazioni e ai fenomeni socio politici ed economici che influenzano i mercati stessi. Gli studi dimostrano che gli investitori hanno dei rendimenti inferiori rispetto agli strumenti finanziari che scelgono di avere in portafoglio. Ad esempio uno studio di Morningstar del 2022 ha preso in considerazione il rendimento di un fondo sul settore farmaceutico su un periodo di 3 anni: a fronte del 23% di rendimento del fondo, il rendimento medio degli investitori nel fondo è stato del 6%. Sempre in un’analisi di Morningstar, uno dei migliori fondi azionari con il 40% di rendimento su 3 anni ha visto il rendimento medio dei suoi investitori solo al 20%. Questo accade in quanto molto spesso, per ragioni emotive e non economico-razionali, si tende a vendere e a liberarsi dello stress di vedere posizioni in sofferenza proprio quando sarebbe il caso di comprare e invece ad essere eccessivamente ottimisti quando tutto sembra andare per il meglio e quindi acquistare quando sarebbe il caso di stare fermi o anche ridurre delle posizioni più speculative. L’affiancamento e le valutazioni di un bravo consulente permettono di mitigare o di annullare del tutto questi comportamenti poco remunerativi per il proprio portafoglio.   Russell Investments Nello studio di Russell, riferito al mercato US, il valore creato dal consulente è di circa il 5%, generato da 4 diverse aree: asset allocation (0,30%), behavioural coaching (2,5%), customized family wealth planning (1,1%) and tax-smart planning and investing (1%). Vediamole in dettaglio. ·        Asset allocation   Un cliente in autonomia tenderà a scegliere asset finanziari con cui ha maggiore famigliarità (in Italia magari la ENI o l’Intesa di turno) molto spesso, quindi, quelli del suo paese (il cosiddetto home bias), dando troppo poco peso ad asset internazionali e diminuendo i benefici della diversificazione. Allo stesso modo, pur in virtù di un portafoglio ben costruito, tenderà ad avere una percentuale di cash eccesiva rispetto ai suoi effettivi bisogni, trascurando la perdita di valore del denaro legata all’inflazione. Il motivo è legato ad un atteggiamento psicologico prudenziale ma non giustificato dalla razionalità economica, il piacere di vedere una componente del portafoglio che rimane stabile dando un senso di sicurezza o semplicemente la mancanza di idee di investimento alternative a quelle già effettuate. Secondo l’ American Association of Individual Investors un investitore “fai-da-te” detiene circa un 20% di contante nel suo portafoglio bilanciato a fronte di un 5% consigliato da un consulente. Nel lungo termine questo non solo genera un minore rendimento del portafoglio ma anche un minore rendimento corretto per il rischio.   ·        Behavioural coaching   Il corretto approccio di finanza comportamentale rappresenta, così come visto anche nello studio di Vanguard, il maggiore contributo di valore aggiunto fornito dal consulente finanziario. Facciamoci una domanda: come mai Sinner o Alcaraz, che certamente non hanno bisogno di qualcuno che gli spieghi come tenere in mano una racchetta, si affidano ai migliori coach sul mercato da cui cercano in continuazione consigli per potersi migliorare giorno dopo giorno? Se anche i grandi campioni traggono beneficio dall' impiego di un coach, ancora di più coloro che hanno appena preso in mano una racchetta o che già bravini vogliono ulteriormente alzare il proprio livello. Qual è il tipico comportamento dell’investitore “fai-da-te” durante le varie fasi di mercato? Di fronte a una crisi, geopolitica o finanziaria, la riduzione delle quotazioni e il vedere le proprie posizioni in perdita genera stress che quando oltrepassa la propria soglia soggettiva costringe l’investitore a uscire dal mercato, magari monetizzando la perdita. Pian piano poi il mercato recupera ma solo dopo una risalita che riporta fiducia l’investitore rientra sul mercato, essendosi però già perso molta parte del recupero. I più grandi recuperi avvengono, forse banale dirlo, solo dopo i grandi crolli. Quindi, mentre è assai difficile prevedere i più grandi crolli è facile prevedere i più grandi recuperi. Il rimanere investiti e incrementare i propri investimenti nelle fasi di ribasso nel lungo termine produce extra rendimento. Del resto se andiamo al supermercato e c’è un’offerta ad un prezzo ribassato sono quasi tutti interessati, paradossalmente molto meno avviene sui mercati finanziari da parte degli investitori meno esperti o più emotivi. Russell Investments ha confrontato il rendimento annuo dell’S&P500 negli ultimi 15 anni con lo stesso fatto da un tipo di investitore che ha un comportamento simile a quello appena descritto. A fronte di un 13,9% del mercato il portafoglio dell’investitore in questione avrebbe generato un 11,4%, la differenza appunto è quel 2,5% se un consulente avesse convinto il cliente a non disinvestire. Infatti, nel lungo periodo, semplicemente perdersi i 10 migliori giorni di borsa dimezza i rendimenti mentre perdersi i migliori 20 riduce del 75% il proprio guadagno. Diventa facile immaginare che se il cliente, spinto dai consigli del suo consulente, avesse aumentato gli investimenti nelle fasi di ribasso e lo avesse fatto anche con strumenti efficienti e in grado di generare extra rendimento rispetto all’indice del mercato, quel 2,5% rappresenterebbe solo la base minima e il maggiore valore aggiunto potrebbe essere facilmente ben superiore.       ·        Customized family wealth planning   La capacità del consulente di creare soluzioni “su misura”, legate alle specifiche necessità del cliente, non solo sul portafoglio finanziario, ma derivanti dai propri progetti di vita, situazioni famigliari o lavorative, eventi specifici e via dicendo, sono in grado di creare, secondo Russell Investments, un extra rendimento rispetto a soluzioni automatizzate di robo-advisor, stimate in oltre 1%. Non si parla più di semplice consulente finanziario ma di consulente patrimoniale che si confronta con il cliente su tematiche relative alla tassazione e gestione immobiliare, la pianificazione finanziaria e pensionistica, il passaggio generazionale, la tutela della persona e quindi la sua capacità di generare reddito, la protezione finanziaria dei propri famigliari, il supporto nella gestione di eventi straordinari quali la cessione o l’acquisto di un’attività o la costituzione di un trust.   ·        Tax-smart planning and investing   In ambito fiscale un valido consulente è in grado di indirizzare il proprio cliente su soluzioni che possano ridurre o differire la tassazione, permettendo di generare rendimenti anche su somme che altrimenti non sarebbero più disponibili se fosse stato effettuato l’adempimento fiscale. Ad esempio, una polizza a gestione separata permette di differire la tassazione del capital gain alla fase di riscatto mentre un fondo pensione presenta una tassazione sui rendimenti inferiore a quella standard. Ottimizzazioni fiscali sono inoltre possibili in ambito societario nella tassazione dei dividendi o del capital gain.   Meglio degli ETF Sempre più negli ultimi anni il settore del risparmio gestito ha fatto ricorso a strumenti a gestione passiva quali gli ETF a discapito dei classici fondi d’investimento. Questo sulla base dei minori costi di tali prodotti rispetto ai classici fondi che quindi hanno un minore impatto sulla performance finale del fondo. Premesso che, sebbene rappresentino una minoranza, vi è un certo numero di fondi di investimento a gestione attiva in grado di sovraperformare il proprio benchmark e quindi fare meglio di un ETF che tendenzialmente segue il mercato, come abbiamo visto, la vera differenza tra la performance dell’investimento (investment return) e la performance dell’investitore (investor return), è legata a quell’insieme di fattori, dall’ asset allocation, alla finanza comportamentale, alla gestione patrimoniale a tutto tondo, all’ efficientamento fiscale, che solo un consulente può fornire, il che spiega perché gli stessi consulenti utilizzano anche gli ETF come strumenti per creare portafogli, così come altri strumenti quali i certificates e via dicendo.   Conclusioni Diversi studi indicano come un bravo consulente è in grado di aggiungere un valore che oscilla da 3% al 5% e anche oltre perché permette di evitare molti degli errori del classico investitore “fai-da-te” tra cui ricordiamo: 1) Sottovalutare l’effetto inflazione con la conseguenza di detenere troppo cash rispetto alle proprie necessità effettive di liquidità e troppo poco investimento azionario che nel lungo termine fornisce il maggiore rendimento reale rispetto a tutte le altre tipologie di investimento, 2) detenere troppi investimenti nel mattone 3) costruire portafogli con poca diversificazione 4) utilizzare un timing contrario ai momenti migliori di mercato 5) limitarsi alla selezione di strumenti non efficienti se valutati in una logica di rendimento corretto per il rischio.

Continua a leggere

LA GUERRA DI TRUMP… GUIDA PER L’INVESTITORE

  • 284
  • 0
  • Mercati finanziari / economia
Scritto il 07.04.2025

Più che Liberation day è stato il Capitulation day, quello delle borse mondiali. Siamo passati dalla promessa di Trump di una pace in Ucraina nel giro di 24 ore (o forse intendeva 24 giorni, settimane, mesi…?) ad una guerra commerciale dichiarata con un tabellone tariffario, basato su valutazioni economiche sballate, simile a quello dei numeri del gioco del Lotto o della tombola. Tra i paesi colpiti anche l’Isola Heard e le isole McDonald, due isole vulcaniche nell’Antartico, a 4000 km da Perth e abitate solo da pinguini. L’agenzia di rating Fitch ha stimato che l’impatto di questa “tombolata” è un aumento dei dazi effettivi medi imposti dagli Stati Uniti dal 2,5% attuale al 22%, un valore simile a quello del 1910. Il tutto ha scatenato il panico sul mercato finanziario che nella giornata di venerdì 5 aprile ha investito anche i titoli bancari per timori che la guerra commerciale impatti pesantemente la crescita mondiale fino a portare ad una recessione, finora scongiurata. È probabile, inoltre, che il settore finanziario, sebbene non sia direttamente impattato come quello manifatturiero dai dazi, sia stato oggetto di prese di profitto venendo da forti rialzi degli ultimi 2-3 anni. Gli analisti finanziari hanno già aumentato le probabilità di una recessione globale, ad esempio il Boston Consulting Group le indica al 40% nei prossimi 12 mesi, la banca d’affari JP Morgan al 60%, dal 40% precedente. C’è anche da considerare che negli ultimi anni la presenza sempre maggiore di algoritmi di negoziazione e di fondi passivi che devono ribilanciare le proprie posizioni in base all’andamento degli indici, aumenta il rischio di oscillazioni più ampie rispetto al passato. Non a caso il Vix, l’indice delle aspettative di volatilità sull’S&P500 è balzato da 21 punti del 3 aprile a quasi 44 del 4 aprile; basti pensare che il massimo valore raggiunto durante la crisi del Covid è stato 65. Cosa possiamo aspettarci adesso? Reazioni nel resto del mondo Fuori dagli Stati Uniti non si sta certo a guardare. Un elemento pericoloso della dichiarazione di guerra di Trump risiede nella minaccia di non rispondere con contro dazi altrimenti il rischio è che lui li alzi ulteriormente. La pronta risposta della Cina, che ha subito dichiarato dazi al 34%, di pari valore a quelli imposti sulle sue merci, offre già un’idea delle conseguenze. L’Europa sta prendendo tempo e sebbene alcuni contro dazi selettivi siano necessari come arma negoziale, l’indicazione di molti osservatori è invece quella di cercare di colpire il settore dei servizi americani e delle società tecnologiche presenti in Europa, penalizzare i flussi di investimento dei risparmi europei che contribuiscono a far salire le quotazioni delle aziende americane, diversificare il più possibile verso altri partner commerciali. Se da un lato, quindi, partirà un lungo braccio di ferro negoziale tra l’amministrazione Trump e il resto della comunità internazionale, la virata protezionistica americana produrrà un cambiamento strategico di lungo termine per molti paesi. Ne è un esempio l’accordo, annunciato già alcuni giorni prima dell’ufficializzazione dei dazi americani tra Cina, Corea del Sud e Giappone, mirato ad incrementare tra di loro la collaborazione commerciale, accelerando su negoziati di libero scambio, nonostante i rapporti diplomatici tra i paesi non siano idilliaci. Se il grande nemico è la Cina, dare un assist ai cinesi per avvicinarsi a quelli che sono partner commerciali e militari storici quali Giappone e Corea del Sud non sembra essere affatto un punto a favore di Trump. Le dichiarazioni del primo ministro inglese e canadese, paesi di cultura anglosassone e storicamente fortemente legati agli USA, sul fatto che il mondo per come lo abbiamo conosciuto dalla fine II Guerra Mondiale non esiste più (personalmente spero solo per i prossimi 4 anni, facendo affidamento ad un nuovo presidente statunitense più moderato in futuro) confermano la necessità di una revisione strategica delle relazioni commerciali e politiche internazionali e sono ovviamente fonte di preoccupazione. In US we trust Sul retro delle banconote da un dollaro americano è riportata la frase “In God we trust”, ossia affidiamoci a Dio. Parafrasando, direi in US we trust, facciamo affidamento sugli Stati Uniti, non sulla sua amministrazione bensì sul resto della popolazione americana, delle sue istituzioni, della sua parte migliore e, paradossalmente, di quella egoistica ed avida. Secondo i dati più recenti, circa il 43% del  patrimonio personale finanziario degli statunitensi è detenuto in azioni. Un sondaggio di Gallup del 2024 indicava che il 62% degli americani detiene azioni, con percentuali dell’87% per i benestanti, il 65% per la classe media, e il 25% per i meno abbienti. Molte azioni sono detenute attraverso in piani pensionistici americani e rappresentano la principale risorsa a cui attingere nel periodo di vecchiaia in mancanza di una pensione pubblica sufficiente e di un servizio sanitario universale come nei paesi europei. Allo stesso tempo, la forte propensione all’indebitamento e ai consumi del cittadino medio americano (quasi il 70% del PIL americano è dovuto ai consumi interni) è sostenuta dall’effetto ricchezza del proprio patrimonio finanziario che in questi anni è cresciuto grazie alle performance molto positive dei mercati azionari. Una guerra commerciale voluta da un presidente americano che vada ad impoverire il cittadino su due fronti, da un lato un aumento di prezzi legato ai dazi, dall’altro una riduzione della propria ricchezza effettiva e percepita, non può che creare malumori, la cui entità è direttamente proporzionale ai cali dell’indice azionario. Allo stesso tempo gli stessi supermiliardari americani, veloci a salire sul carro del vincitore presidenziale, non possono che aumentare il loro malcontento di fronte alla minaccia di una forte riduzione del valore delle loro partecipazioni quotate. Non a caso, nel weekend, i senatori repubblicani si sono affrettati ad approvare un quadro finanziario decennale che includa riduzioni fiscali per circa 5 trilioni di dollari con 51 voti a favore, e 48 contrari, con 2 senatori repubblicani che hanno votato contro le indicazioni di partito. C’è chiara la necessità dell’amministrazione Trump di mantenere le promesse elettorali e di dare la carota oltre al bastone al fine di contenere il malcontento che potrebbe diventare eccessivo. Sabato, in molte città degli Stati Uniti, si sono tenute molte manifestazioni di protesta contro Trump. Secondo alcune indiscrezioni di stampa il segretario al Tesoro Scott Bessent starebbe pensando a dimissioni dopo la debacle borsitica di questi giorni. Già qualche giorno fa era circolata la voce, poi smentita dalla Casa Bianca, che Musk avrebbe lasciato il suo incarico pubblico a maggio. Insomma, appare evidente che i malumori sono crescenti nella società e soprattutto nei portafogli di molti americani per cui la speranza, la cui grandezza è direttamente proporzionale alla discesa dell’S&P500, è che venga proprio dall’interno un meccanismo di moderazione alla presidenza Trump. Statistiche e previsioni Come correttamente ipotizzato nel mio articolo del 17 marzo un possibile punto di arrivo del movimento di discesa era in area 5200-5000; la chiusura di venerdì è stata a 5074 punti. In un certo senso la correzione è salutare, in quanto le valutazioni della borsa americana (come ricordato nell’articolo di novembre 2024) erano eccessive. Desta invece preoccupazione la velocità con cui questo è accaduto e soprattutto, come detto fin qui, le motivazioni che hanno portato a questo e i possibili sviluppi futuri. Sono andato ad analizzare tutte le situazioni (a partire dal 1950) in cui ci sia stato un calo mensile sull’S&P500 vicino al 6% e in cui nel mese precedente sia stato realizzato un massimo degli ultimi 2 anni. Come si evince dalla tabella, il mercato tende a ripartire in senso rialzista abbastanza velocemente, in quanto nel giro di due mesi al massimo, fa nuovi minimi con una variazione dalla chiusura del mese in considerazione in media di meno del 5%. Se consideriamo anche la variazione tra i massimi dei 24 mesi prima e i minimi prima della ripartenza la variazione è in media (con la mediana molto simile) del 18%, con punte fino al 28% come nel caso del Covid del 2020. Al momento la variazione tra chiusura di marzo e attuale minimo è quasi vicina al 10%, il doppio della media e comunque ancora minore rispetto al caso più estremo del 2018. La distanza rispetto ai massimi è del 17,5%, vicino alla media in questo caso e comunque minore del caso estremo del -28% durante lo scoppio della pandemia del 2020. Anche se l’indice dovesse scendere intorno a 4800 punti, avremmo una variazione dai massimi vicina al 21% e una variazione dalla chiusura del mese intorno al 14%, vicina al caso estremo del 2018. In sintesi: il movimento ribassista ha già raggiunto un primo livello target interessante intorno ai 5000 punti e da qui potrebbe già partire una prima reazione. In ogni caso il livello chiave rimane 4800, dove troviamo i massimi relativi di gennaio 2022 e la trend line rialzista partita dal 2020. L’area quindi tra i prezzi attuali e 4800 rappresenta già un’opportunità di acquisto. Solo la rottura al ribasso dei 4800 aprirebbe, da un punto di vista tecnico, potenziali ribassi assai più ampi, ma su questo è necessario attendere l’evoluzione della possibile guerra commerciale in atto. Anche considerando l’ipotesi recessione, un'altra statistica ci viene in aiuto.  Dal dopoguerra in poi, in caso di recessioni, ci si può attendere, in media, una discesa dai massimi intorno al 25%, stimata in questo caso intorno ai 4600 punti, a testimonianza di come valori intorno ai 4800-4600 siano chiave per capire se si possa essere davanti  ad una correzione anche marcata ma che rientra nella “normalità” delle dinamiche finanziarie oppure ci si trovi davanti a un evento più raro e maggiormente impattante, simile alle crisi inflazionistiche degli anni ’70, alla tech bubble del 2020 o alla crisi finanziaria del 2008, con cali superiori al 40% dai massimi. Insomma la variabile Trump è ancora una X da definire (come il nome del social del suo caro amico Musk). Conclusioni Obbligazioni: già a prezzi interessanti come ricordato in marzo, non sorprende che possano ben performare in caso di uscita dall’azionario e reinvestimento dei flussi su quello che è solitamente il safe heaven nei momenti di turbolenza. Maggiori rischi di recessione aumentano la probabilità di maggiori tagli da parte delle banche centrali, anche se nel caso della Fed la politica diventa più ambigua se invece i dazi comportassero un aumento stabile delle aspettative d'inflazione. Da preferire scadenze sul medio periodo (per mitigare un rischio di ritorno inflattivo) e governativi europei in quanto il dollaro potrebbe continuare ad indebolirsi (obiettivo anche di Trump che vuole un riequilibrio commerciale e ha chiesto alla Fed di tagliare i tassi) Azionario: come abbiano visto, tutta la fascia di prezzo dalle attuali valutazioni fino a 4600 rappresenta già un’opportunità di acquisto interessante sia da un punto di vista tecnico che in caso di recessione.  Per chi ha una minore propensione al rischio il settore utility è quello da preferire, soprattutto nel caso di recessione e tagli aggressivi dei tassi di interesse. In attesa di nuovi elementi e colpi di scena che non mancheranno nei prossimi giorni e settimane, in God we trust.

Continua a leggere

EUROPA VS USA. DOVE VANNO I MERCATI E LA POLITICA

  • 430
  • 0
  • Mercati finanziari / economia
Scritto il 17.03.2025

PIÙ EUROPA, MENO AMERICA. DOVE VANNO I MERCATI E LA POLITICA   Più che di Maga, lo slogan lanciato da Trump, Make America Great Again, ossia fai di nuovo l’America grande, si potrebbe parlare di Make America Gambling Again, fai giocare di nuovo l’America d’azzardo, con politiche ad alto rischio come quelle sui dazi, sull’Ucraina, sulla Nato che possono produrre poi effetti imprevedibili e possibilmente contrari agli obiettivi desiderati, come la reazione sui dazi da parte degli altri paesi del mondo, il crollo dei mercati azionari americani, le tensioni geopolitiche con i propri storici alleati. Inquietante che il nuovo presidente abbia voluto alla Casa Bianca un quadro di James Polk, l’undicesimo presidente degli USA, che più di tutti i suoi predecessori ha fisicamente allargato i confini geografici americani. Nella sua presidenza dal 1845 al 1849 ha aggiunto California, Texas, Oregon, Nevada, Arizona e altri ancora, raddoppiando il territorio nazionale e dando all’Unione un accesso al Pacifico. Le “dichiarazioni” di Trump su Groenlandia e Canale di Panama, incluso in Canada, fanno pensare che il great non sia davvero solo in senso economico e politico ma anche, in maniera sconcertante, in senso fisico. Del resto il magnate americano deve parte della sua fortuna ai casinò, il regno del gioco d’azzardo, in linea con il suo atteggiamento spregiudicato e sempre pronto ad alzare la posta e a rilanciare per mettere in difficoltà l’avversario. Il problema (o forse, e lo speriamo tutti, l’opportunità) è che gioca d’azzardo non più con le sue aziende ma con i destini politici ed economici del mondo. Ma andiamo con ordine… Economia e geopolitica “Ci sono decenni in cui non accade nulla e ci sono settimane in cui accadono decenni”. Una frase attribuita a Lenin (che poi pare mai effettivamente pronunciata e frutto solo di una rielaborazione successiva) che ben si adatta alle ultime settimane. Ovvio che queste rappresentino solo il punto di arrivo di tappe precedenti. Di questi ultimi anni vorrei ricordare 3 date simboliche e storiche che hanno cambiato il mondo: il 6 gennaio del 2021 con l’assalto a Capitolo Hill che ci ha mostrato palesemente i cambiamenti interni all’elettorato statunitense e le spinte in senso autoritaristico e protezionistico del paese; il 21 febbraio 2022 con il discorso di Putin che firma in diretta tv il riconoscimento delle repubbliche di Lugansk e Donetsk nel territorio russo che poi prelude all’invasione dell’Ucraina pochi giorni dopo; il 5 novembre 2024 con la vittoria di Trump alle elezioni americane. Su un piano strettamente economico la volontà di mantenere fede alle promesse elettorali di imposizione dei dazi, non solo verso la Cina, ma verso Canada, Messico ed Europa, dazi prima minacciati, poi in parte ritirati e posticipati, poi di nuovo annunciati, ha creato incertezza sulle previsioni di crescita economica negli Usa e nel resto del mondo, portando a una discesa delle borse azionarie americane di oltre il 10% nel giro di qualche settimana. I dazi doganali rappresentano un extra prezzo che il consumatore dovrebbe pagare per avere lo stesso prodotto importato e da un punto di vista economico comportano un effetto simile a un aumento delle tasse in quanto riducono il suo potere di acquisto, costringendolo a una riduzione della domanda di beni acquistati e un calo quindi dei volumi di vendita da parte dei paesi esportatori. Essendo la bilancia commerciale Usa-Europa in avanzo per gli europei, il danno principale sarebbe soprattutto per i paesi esportatori europei come l’Italia. Lo scopo economico e politico di Trump sarebbe, attraverso i dazi, da un lato aumentare le entrate fiscali e cercare di contenere il debito pubblico americano che è esploso negli ultimi anni passando da circa il 60% del PIL nel 2010 a oltre il 120% attuale, dall’altro spingere i produttori stranieri a trasferire le proprie produzioni all’interno degli Stati Uniti per evitare i dazi e nello stesso tempo incentivare la produzione delle imprese locali la cui domanda di prodotti sostitutivi, più economici di quelli importati, sarebbe destinata a crescere. Allo stesso tempo permetterebbe di non fare ulteriormente alzare il debito qualora Trump volesse cercare di ridurre le aliquote fiscali così come promesso in campagna elettorale. Un esempio storico dei rischi del protezionismo risale agli anni ’30 quando, con lo Smoot-Hawley Tariff Act del 1930, gli Stati Uniti alzarono fortemente le tariffe al fine di proteggere le imprese americane durante la Grande Depressione. L’effetto finale fu opposto rispetto all’obiettivo: la risposta degli altri paesi con contro dazi (quello che adesso stanno facendo Europa, Cina, Canada) portò a un crollo del commercio mondiale, aggravando ulteriormente la crisi dell’economia. L’incertezza e i rischi delle politiche commerciali annunciate dalla nuova amministrazione americana hanno già spinto molti analisti a ridurre le stime di crescita del PIL Usa e mondiale e alzare le stime d’inflazione. Morgan Stanley ha ridotto le stime di crescita per l’economia Usa dall’1,9% all’ 1,5% nel 2025 con inflazione al 2,5% anziché 2,3%, JP Morgan ha alzato il rischio recessione dal 30% al 40% e Goldman Sachs dal 15% al 20%. Una minore crescita e maggiore inflazione non solo renderebbero più complessa la politica economica della Federal Reserve ma insieme con un rallentamento nella discesa dei tassi per contrastare un’inflazione di nuovo in salita andrebbero a penalizzare in particolare le società a maggiore crescita, ovvero quelle dell’indice Nasdaq, non a caso sceso dell’ 11% nell’ultimo mese. E’ indubbio che dietro questo atteggiamento ci sia una strategia di base, un progetto strategico a lungo termine che cerchi di ridurre i costi che l’impero americano ha dovuto sostenere per mantenere un ruolo egemone dalla fine della II Guerra Mondiale. Il crescente debito pubblico, la globalizzazione che ha portato la delocalizzazione di parte delle imprese americane in paesi con costi di produzione minori, la crescente minaccia economica, politica e militare della Cina (pensiamo alle rivendicazioni su Taiwan), necessitano di una revisione ed efficientamento dell’apparato statale, militare e un possibile riequilibrio del disavanzo commerciale. In sintesi un trasferimento di parte dei costi imperiali dai cittadini americani a quelli dei paesi nel resto del mondo. Non devono stupire (che non significa giustificare) quindi i programmi di tagli alle spese federali affidate a Elon Musk (che di recente ha bloccato le carte di credito al personale civile delle basi Nato in Italia giusto per dare un segnale), la richiesta di maggiori spese militari da parte dei paesi Nato, l’idea di un riequilibrio dei disavanzi commerciali tramite dazi, favorendo una svalutazione del dollaro che possa portare i prodotti americani ad essere più competitivi sui mercati esteri. Il dubbio è sull’efficacia degli strumenti che potrebbero, come abbiamo fin qui visto, portare a dei risultati diversi dagli obiettivi desiderati. In ogni caso il messaggio è chiaro per tutti: ai paesi amici, dovete fare di più da soli e più a vostre spese, per i paesi “meno” amici (leggi Cina o Iran), mi sto riorganizzando per contrastarvi meglio. Ucraina, Nato ed effetto tassi La richiesta di maggiore contribuzione alle spese militari da parte dei paesi Nato non è nuova ed è già stata avanzata anni fa. Un aumento delle spese militari è semmai propedeutico al rafforzamento della Nato dando anche un maggior peso contrattuale ai paesi minori e che finora, per loro fortuna, hanno potuto spendere il meno possibile in difesa, delegata largamente al ruolo egemone americano e comunque in assenza di chiare e imminenti minacce alla propria sicurezza. L’invasione e il perdurare del conflitto ucraino hanno invece mostrato che esiste un potenziale pericolo di fronte al quale non si è adeguatamente preparati. Anche la modalità con cui Trump sta cercando di portarlo a termine aumenta la necessità e l’urgenza che i popoli europei investano di più in sicurezza, in quanto un minore coinvolgimento statunitense in Europa sembra cosa certa, per lo meno per tutto il mandato dei prossimi 4 anni di Trump. Se quest’ultimo stia poi usando, cosa anche probabile conoscendo il suo stile, lo spauracchio delle sorti dell’ Ucraina come mezzo per ottenere quanto richiesto da anni, ossia un aumento della spesa militare e di sicurezza in Europa, non possiamo saperlo ma certo l’effetto finale è stato sicuramente quello di una rapida accelerazione in questo senso, con l’annuncio (il 5 marzo) e l’approvazione (il 12 marzo) del piano ReArm Europe, circa 800 miliardi a livello aggregato, con larga parte demandati ai bilanci nazionali. A questo proposito si tratta di precisare che le spese non sono destinate esclusivamente ad armamenti ma a un insieme di misure per innalzare il livello della difesa collettiva, includendo, infatti, una cooperazione tecnologica avanzata riguardo a cybersecurity, droni, robotica avanzate per la difesa, intelligenza artificiale, big data. I critici dell’iniziativa sostengono che più che spese dei singoli paesi si sarebbe dovuto adottare un approccio comune cercando un coordinamento maggiore. Va ricordato, comunque, che 150 degli 800 miliardi annunciati si riferiscono a un fondo iniziale legato all’acquisto congiunto di armamenti, sicuramente un provvedimento che incentiva la cooperazione e rende gli acquisti più efficienti. Se tale piano rappresenti, come credo sia, un primo passo per la costituzione di un maggior coordinamento delle forse armate europee e anche la creazione di un primo nucleo di esercito europeo comune, non può che essere visto positivamente e, in mancanza di una politica fiscale aggregata e in urgenza di dare un segnale forte ed immediato rispetto agli eventi in Ucraina, non si poteva che demandare le spese ai singoli stati membri allo stesso tempo venendo incontro alle richieste americane di maggiore quota del PIL destinato alla difesa. A questo si aggiunge un piano da 500 miliardi annunciato dalla Germania il 5 marzo della durata di circa 10 anni, piano esentato dal freno al debito e destinato non solo a innalzare la spesa militare ma anche ad investire in infrastrutture, ad esempio ferrovie, scuole rete elettrica, autostrade digitali. La Germania ha ampio spazio fiscale avendo un basso rapporto debito/PIL (62%) ma l’annuncio di questa svolta storica nell’approccio sempre estremamente prudente nei confronti di maggiore indebitamento ha portato i rendimenti dei titoli di stato tedesco a un repentino innalzamento, con il decennale arrivato a toccare il 2,9%, spingendo al rialzo i tassi in generale della zona euro. Il combinato di ReArm Europe e piano tedesco ha comportato negli ultimi giorni un rapido calo delle quotazioni dei titoli di stato italiano spingendo il rendiment  del BTP a 10 anni a circa il 3,9%. Cosa dire su una possibile pace in Ucraina? Difficile fare previsioni ma è assai probabile che la larghissima parte o la totalità dei territori occupati dai Russi non verrà restituita. Geograficamente il ricongiungimento con la Crimea tramite il Donetsk e Mariupol ha reso il Mar d’Azov un grande bacino a completo controllo russo per poter ospitare e rafforzare una forte presenza navale civile e militare russa al fine di avere un maggiore accesso al mare Mediterraneo e alla protezione ed espansione dei propri interessi in Libia e Africa. Nell stesso tempo ha definitivamente ricollegato la Crimea alla “madre patria” russa, legame assai fragile fino al conflitto attuale in quanto esclusivamente legato al famoso ponte di Kerc, un ponte di 18 km, inaugurato da Putin nel 2018, che unisce il territorio di Kasnodar della Russia continentale alla penisola di Kerc in Crimea. E’ probabile che i territori non verranno mai riconosciuti ufficialmente russi dall’Ucraina e dai paesi europei (con possibili eccezioni, vedi Ungheria), anche se con l’accordo di non riprenderseli con la forza, in modo un giorno da poterli rivendicare se cambiasse qualcosa in Russia. In cambio di questo sacrificio territoriale e dei tanti caduti sarebbe comunque necessario fornire delle garanzie di sicurezza al popolo ucraino. L’Ucraina non sarebbe ammessa nella Nato, difficilmente le verrebbe esteso l’articolo 5 (proposta fatta dalla Meloni ma che sarebbe come di fatto farla entrare nella Nato senza però poterla integrare all’interno del suo sistema quindi rendendo obbligata una sua difesa ma nello stesso tempo fornendole una posizione debole) e in prospettiva potrebbe entrare nella UE che all’articolo 42 del trattato di Lisbona prevede un’assistenza dei paesi membri a uno stato “vittima di aggressione armata sul suo territorio”. E’ chiaro, da un lato, che un eventuale ingresso richiederebbe anni e quindi lascerebbe formalmente scoperta l’Ucraina per un periodo troppo lungo mentre tale articolo non definisce nessuna procedura formale e non prevede espressamente un’assistenza militare. Dall’altro lato, nei fatti, gli stati europei, tramite il sostegno militare e finanziario in questi anni agli ucraini lo hanno già applicato “de facto” all’Ucraina. È quindi, a mio giudizio, le garanzie di sicurezza che saranno fornite all’Ucraina saranno di natura bilaterale, con accordi da parte dei singoli stati oppure con un accordo complessivo da parte di una coalizione di stati europei e non, una specie di nuova Nato per l’Ucraina, al cui interno c’è da capire poi se e come ci sarà anche una presenza degli Stati Uniti. Alcune statistiche Quali gli effetti di questi cambiamenti geopolitici e commerciali di portata storica sui mercati finanziari? Nelle ultime 3 settimane circa, c’è stata una correzione di almeno il  10% sull’indice azionario americano dell’S&P500, cosa che, come ricordato nel mio articolo di novembre 2024, si verifica in media una volta all’anno. Considerando che l’ultima si era manifestata nell’ottobre 2023, non stupisce quindi che puntualmente sia arrivata. Ciò che però la rende più insolita e statisticamente peculiare è che si tratta della quinta più rapida correzione di almeno il 10% negli ultimi 75 anni. E cosa è successo generalmente dopo in situazioni simili? La più rapida è stata quella tra il 19 e il 27 febbraio del 2020, completata in soli 8 giorni. Dopo pochi giorni di rimbalzo l’indice però ha fatto un -26% dai minimi precedenti. In quel caso però parliamo dello scoppio della pandemia del covid. La seconda correzione più rapida si è verificata tra gennaio e febbraio del 2018 in soli 13 giorni, un minimo successivo (-9%) si è visto solo dopo oltre 200 giorni, a fine 2018. La terza tra settembre e ottobre del 1955 che non ha visto successivamente ulteriori discese. La quarta tra il 12 e il 29 giugno del 1950, durata 17 giorni e che dopo pochi giorni di rimbalzo ha fatto di nuovo un -4% dai minimi. Sempre di 20 giorni sono state le correzioni nell’ottobre 1997 e sempre nell’ottobre del 1979. Nel primo caso il mercato è successivamente solo salito, nel secondo ha fatto un nuovo minimo, scendendo ulteriormente del 6%, circa 100 giorni dopo. Che indicazione trarne? Non univoca ma su queste basi è possibile che dopo alcuni giorni o anche settimane di ripresa ci possano essere ulteriori discese entro un massimo del 10%. Se guardiamo a un'altra statistica, su dati dal 1980 tuttavia, notiamo come solitamente correzioni di tali entità rappresentano un buon punto d’ingresso sul mercato azionario, in quanto, mediamente, nel giro di 6-12 mesi, vengono riassorbite completamente. Va notato però, come si vede dal grafico, che il discorso cambia di molto se si manifestano delle recessioni e che il dato rappresenta una media: non dimentichiamo che dal 1980 abbiamo avuto importanti discese nel 2000 (bolla internet), 2009 (crisi subprime) e 2020 (covid). Incrociando queste considerazioni con un’analisi grafica mensile potremmo considerare un possibile punto di arrivo del movimento correttivo in atto in area 5200-5000, in corrispondenza di alcuni minimi relativi precedenti e in contatto con la trend line dinamica di lungo periodo che parte proprio dai minimi causati dal Covid nel 2020. E’ tuttavia importante notare come se da un lato gli indici azionari americani sono stati particolarmente penalizzati, quelli europei si trovano quasi ai massimi storici. In particolare, da quando si è insediato Trump il 20 gennaio, l’indice della borsa cinese è salito di quasi il 18%, il Dax tedesco dell’8%, il FTSEMIB italiano del 6% e l’Eurostoxx europeo del 3%. In particolare in Italia il buon andamento del comparto finanziario, sostenuto dai tassi ancora alti, ha aiutato il rialzo. Inoltre, la ripartenza dell’economia tedesca non può che favorire l’economia italiana che è fortemente collegata a quella del suo vicino. Conclusioni Tassi di interesse: l’aumento della spesa pubblica tedesca, della spesa per armamenti in Europa, i timori per un rallentamento dell’economia europea e mondiale legata alle politiche commerciali protezionistiche con la conseguenza di un maggior rischio di sostenibilità dei debiti nazionali e i possibili effetti inflazionistici spingono le previsioni dei tassi di interesse di lungo termine più in alto. Questo penalizza nel breve le obbligazioni a lunga scadenza e rende ancora più utile e necessaria per l’investitore una gestione attiva tramite validi fondi d’investimento della parte obbligazionaria del proprio investimento. In generale, gli attuali prezzi obbligazionari, pur rappresentando già dei buoni punti d’ingresso, potrebbero subire ulteriori correzioni se si passasse a una vera guerra commerciale a livello internazionale. Mercato azionario: come ricordato nel mio articolo del 10 novembre 2024 sconsigliavo di aumentare il peso azionario, essendoci valutazioni eccessive, soprattutto riguardo alle Magnificent 7 (ad oggi Tesla ha perso il 50% dai massimi, Nvidia il 30%, Amazon, Meta e Alphabet-Google il 21%. Microsoft il 17% e Apple il 13%). A quella data l’indice quotava circa 6000 punti, molto vicino ai circa 6150 del massimo storico raggiunto il 19 febbraio, il giorno prima del giuramento di Trump. Oggi siamo a 5640 e le prospettive sono semmai peggiorate. Nello stesso tempo consigliavo il mercato cinese, che come abbiamo visto è salito. Ad oggi quindi sembrano essere quindi più interessanti i mercati europei rispetto a quelli americani, venendo da valutazioni storicamente più a buon mercato. Il trend sulle imprese della difesa, in particolare europee, ma anche americane, rimarrà per lungo tempo anche se i titoli del settore hanno già corso molto proprio sia anticipando sia in conseguenza del piano di ReArm annunciato. Settori legati alle infrastrutture possono beneficiare sia grazie al piano infrastrutturale tedesco sia, lo auspichiamo tutti, ad un periodo di ricostruzione in seguito ad un pace in Ucraina. Se guardiamo ad alcuni titoli italiani, Leonardo o Buzzi sono sicuramente interessanti nel lungo periodo. Anche il settore bancario dovrebbe continuare a beneficiare dei tassi di interesse a livelli ancora sostenuti. Rimangono i rischi forti legati ad alcuni settori fortemente esportatori e in generale all’economia mondiale se le politiche protezionistiche dovessero sfociare in una vera guerra commerciale. Lo vedremo nelle prossime settimane e mesi, del resto adesso siamo in fase di gambling, i bluff sono possibili. In ogni caso è necessaria più Europa, in tutti in sensi.

Continua a leggere

IL RALLY AZIONARIO QUANTO DURERÀ ANCORA?

Scritto il 11.11.2024

IL RALLY AZIONARIO QUANTO DURERÀ ANCORA? Il principale indice americano del mercato azionario, l’S&P500, sembra sfidare la gravità e continua il suo trend di crescita. Nel lungo termine il mercato azionario rappresenta uno dei migliori investimenti finanziari possibili e non è difficile capirne la motivazione anche senza avere grandi nozioni di finanza: oggettivamente si punta sulla crescita e sviluppo del mondo e della sua civiltà, cosa storicamente vera ma ancora più vera in un’epoca di relativa pace mondiale, che favorisce gli investimenti su attività civili, e di capitalismo dominante. Tuttavia, è indubitabile che vi siano periodi migliori rispetto ad altri per fare acquisti, così come avviene nel caso delle promozioni di acquisto presso i centri commerciali. Proviamo quindi a capire se questa fase di mercato può rappresentare un periodo di saldi o meno. I prezzi e le politiche di Trump Partiamo dai prezzi. Il grafico sottostante mostra come l’ultima correzione importante dai massimi, ossia pari o superiore al 10%, si sia verificata poco più di un anno fa, ovvero ottobre 2023. Proprio in un mio articolo di dicembre 2023 riportavo una tabella in cui si indicava come, in media, ci si possa attendere una correzione di almeno tale livello una volta l’anno. In agosto di quest’anno c’è stata una correzione importante, vicina al 9%, che tuttavia non può rientrare in questa statistica. Nello stesso articolo ricordavo come storicamente le recessioni avvengono dopo che la Fed inizia a tagliare i tassi, cosa che è avvenuta nel settembre 2024. Da allora l’indice americano è salito di circa il 6%, portandosi ai massimi storici. La metà circa del rialzo è derivata dall’entusiasmo degli operatori per l’elezione di Trump, storicamente favorevole a minori tasse e quindi maggiori profitti per le imprese. Sul piano economico le indicazioni elettorali del neo presidente dovrebbero aumentare il deficit fiscale a causa di minori introiti tributari, difficilmente bilanciabili con i dazi o i tagli alla spesa pubblica che Trump vorrebbe implementare. Paradossalmente la probabile politica protezionistica comporterebbe un aumento dei prezzi interni sulle merci estere spingendo al rialzo l’inflazione (il premio inflattivo di Trump potrebbe oscillare tra lo 0,4-0,8% secondo la casa di investimento Algebris), proprio quella inflazione di cui sono preoccupati molti elettori americani che hanno penalizzato l’amministrazione Biden e votato, oltre le previsioni, per Trump. Attualmente la core inflation negli Stati Uniti si attesta al 2,7% e le stime per i prossimi 12 mesi sono nel range 2,5-3%, comunque sopra il target della Fed del 2,3%. L’ipotesi di recessione, data per molto probabile a inizio 2023 per i successivi 12 mesi, non è all’ordine del giorno. Il focus principale rimane sull’aumento del protezionismo a livello mondiale e probabili guerre commerciali, lo scarso effetto degli stimoli fiscali per il mercato interno cinese, gli effetti inflazionistici e di deficit fiscale delle politiche immigratorie e tariffarie di Trump, almeno sulla carta. Le valutazioni Un interessante grafico di Bofa mostra la correlazione storica tra le valutazioni del mercato azionario, espresse come rapporto tra prezzi e utili normalizzati (un po’ come calcolare il prezzo al metro quadro quando si compra un immobile) e i rendimenti storici nei 10 anni successivi. La correlazione è negativa, ad indicare che comprando in una fase storica con valutazioni elevate l’apprezzamento successivo è ridotto, mentre comprando in fasi di sconto, i rendimenti futuri sono maggiori. Alle attuali valutazioni, per prossimo decennio si stima un rendimento dell’1-2% annuo mentre si salirebbe ad un 4-5% su un indice equal-weighted, ossia dove il peso di ciascuna delle 500 società dell’ indice è uguale. Questo significa che ci sono poche società cresciute tantissimo a dispetto di molte altre e il cui apprezzamento è rimasto indietro e che mostrano, su base valutativa, maggiori potenzialità di rialzo nei prossimi anni. Non a caso, la concentrazione del valore di mercato delle 10 principali società ha raggiunto livelli record, rappresentando il 34% dell’intero indice. Warren Buffett Un altro segno di valutazioni sicuramente non a buon mercato potrebbe arrivare dalle ultime attività di disinvestimento di Warren Buffett, il più grande investitore al mondo, che negli ultimi giorni ha continuato a vendere quella che per tanti anni ha rappresentato la principale posizione del suo portafoglio, Apple, (Buffett non è uno che ama tanto la diversificazione…), portando la liquidità della sua società, la Berskshire, a circa 325 miliardi di dollari, il più alto livello dagli anni ‘90. Questa mossa ha accesso speculazioni sulle sue reali intenzioni: chi ritiene possa pensare a una grande acquisizione, chi invece fa presente come, dati ancora gli elevati tassi d’interesse sul breve periodo, ha preferito vendere titoli i cui prezzi non giustificano più i profitti futuri e prepararsi per acquisti più a buon mercato, parcheggiando la liquidità con un’ottima remunerazione. Da notare come Buffet abbia incrementato negli ultimi mesi la sua posizione nella società petrolifera Occidental Petroleum oltre a mantenere una posizione importante in Chevron. E’ assai probabile che le politiche di Trump favoriranno una maggiore produzione petrolifera negli Stati Uniti. L’oracolo di Omaha, come viene soprannominato Buffett, forse aveva già capito chi avrebbe vinto le elezioni? Conclusioni La componente azionaria rimane un’importante elemento che dovrebbe essere sempre presente, con percentuali variabili in base al proprio profilo di rischio, per ciascun investitore. Tuttavia, le valutazioni attuali sembrano essere elevate se comparate con le medie storiche e suggeriscono di non incrementare al momento il peso dell’azionario in generale.  In ogni caso, delle opportunità potrebbero esserci in specifici settori, quali il petrolifero americano, il settore della cybersecurity, il mercato cinese che presenta valutazioni storicamente più interessanti, anche se attualmente penalizzato dalla crisi del settore immobiliare e di debolezza della domanda interna, oltre ad un rischio geopolitico relativo alle politiche protezionistiche americane e le tensioni in prospettiva su Taiwan.

Continua a leggere

L’ECONOMIA UMANA, DALLA TIRANNIA ALLA GIOIA DEL DENARO

  • 893
  • 1
  • Formazione/Educazione Finanziaria
Scritto il 19.08.2024

Sotto l’ombrellone ho trovato interessante l’ultimo libro di Vittorino Andreoli, “La dittatura del denaro”. Il celebre scienziato, attraverso un’analisi psicologica mette in evidenza come le distorsioni del nostro modello di sviluppo economico e sociale possano creare le premesse psichiche per malattie e atteggiamenti di tipo paranoico o depressivo. L’auspicio è che si recuperi un’economia in cui il denaro torni ad essere mezzo e non fine, il cui il valore dell’individuo non dipenda dal danaro (e suoi simboli) che possiede ma dalla ricchezza di affetti, di condivisioni, di educazione, di lavoro gratificante, di partecipazione ad una comunità. Il termine stesso economia, che nasce dall’insieme di oikos (casa) e nomos (norma), ossia gestione della casa, ha insito il riferimento ad una famiglia, ad una comunità, ad un insieme quindi di individui e di relazioni e non esprime individualismo o egoismo. Gli stessi imperativi per la sopravvivenza definiti da Darwin, alimentazione, necessità di un territorio, riproduzione della specie, non hanno come valore il denaro ma lo vedono quale mezzo.  Altri sono i valori primordiali delle prime società umane quali la conoscenza (che nell’antropologia rimanda al vecchio saggio), l’intelligenza come capacità di capire, intuire o prevedere una difficoltà (si guardano allora gli astri o il volo degli uccelli), il senso del sacro ossia la necessità di relazionarsi con l’invisibile (il ruolo del sacerdote, la nascita delle religioni). In un’economia del denaro in cui il valore dell’uomo è misurato solo in base al denaro che possiede, l’eccesso di denaro così come la sua mancanza comportano degli effetti psicologici sugli individui, creando un’economia dell’inutile per pochi e una mancanza del necessario per tanti. In una critica rivolta ai grandi super ricchi della terra l’autore identifica la patologia dell’inutile che può sfociare in paranoia. Chi possiede enormi quantità di denaro le slega inevitabilmente dalla necessità di consumo o obiettivi specifici e l’accumulo diventa solo fine a se stesso con il solo scopo di aumentare il senso di potere dell’individuo, inteso come “faccio perché posso” oppure “posso per questo faccio”. Un esempio rappresentativo potrebbe essere la classica notizia di cronaca del magnate russo di turno che ha speso migliaia di euro per la bottiglia di champagne di dubbia qualità, in quel famoso locale della riviera, al solo scopo di mostrare quanto possa rispetto ad un altro. Alla base della paranoia vi sono due deliri: il delirio di onnipotenza, ossia faccio ciò che voglio senza che qualcuno me lo possa impedire, e il delirio persecutorio, in cui devo eliminare i miei nemici che potrebbero essere coloro che mi impediscono di fare ciò che voglio. Il potere dato da un eccesso di danaro può facilmente portare la psiche individuale verso questi deliri se l’individuo manca di valori etici. Dall’altro lato anche una mancanza di denaro, non quindi povertà, che porti l’individuo a vivere al limite, un vivere al minimo, porta un senso di costante insicurezza. La mancanza di denaro diventa presenza ossessiva e costante, presenza di un’assenza. La paura continua che un piccolo o grande mutamento degli eventi dell’esistenza, quali una spesa medica imprevista, la perdita del lavoro, semplicemente il dover rinunciare a qualcosa d’importante perché meglio dirottare quelle poche risorse economiche a disposizione su altri bisogni prioritari, diventa angoscia, malinconia, depressione. In quest’ultima, infatti, convivono due fattori: la percezione del senso di inutilità, la precarietà esistenziale nonostante tutti gli sforzi profusi da un lato e nello stesso tempo un senso di colpa, il non essere riusciti a fare ciò gli altri si aspettavano (Alberto Sordi sosteneva che è peggio diventare poveri  che essere poveri). E’ importante sottolineare come Andreoli non sia critico verso il profitto, il danaro, la creazione di ricchezza, il mondo economico in genere, ma solo verso le sue distorsioni che possono diventare distorsioni anche della psiche. L’elogio è, infatti, per quegli imprenditori che, con visione, hanno prima immaginato e poi creato una realtà che non vedevano ma che solo via via costruivano, spinti dalla passione, uomini che desideravano un mondo migliore, disposti a sacrificare i piccoli vantaggi del presente per andare oltre, simili ad un Ulisse che sa mettersi in mare e navigare a dispetto dei venti e delle incertezze. Imprenditori che conosco anche le sconfitte e che le hanno superate, imprenditori che hanno fatto squadra e il cui successo economico è solo la traduzione tangibile di valori di umanità e condivisione, di riconoscimento del lavoro dei collaboratori,  imprenditori quindi che conoscono bene il sacrificio e il senso di sconfitta e che sono quindi pronti ad aiutare coloro che invece, avendo tentato un percorso analogo, non sono riusciti a raggiungere gli stessi risultati. L’autore, infatti, ricorda di avere incontrato nella sua esperienza di vita tanti scienziati che hanno ottenuto successi straordinari grazie a costanza e impegno, raggiungendo le più alte onorificenze, e ancora di più persone che hanno mostrato lo stesso impegno, la stessa passione ma che indirizzati su ipotesi scientifiche non corrette, non hanno raggiunto alcun risultato di rilievo, e semmai hanno aiutato gli altri a perseguire le strade più corrette: il successo è sempre frutto di un certo grado di aleatorietà. La proposta di Andreoli è quindi un’economia diversa, un’economia del “ben essere”, che porti degli aggiustamenti a quella attuale che fornisce ricchezza-potere a uomini malati di egocentrismo e paranoia. Lo stesso modello economico vigente sembra voler dare una risposta a coloro potenzialmente afflitti dalla depressione per mancanza di sufficienti risorse economiche, suggerendo loro semplicemente di lavorare di più. Tuttavia, i bassi salari relativi ad alcune professioni, anche ad alto valore intellettuale, quale quello degli insegnanti (pensiamo alla mancanza di lavoratori stagionali spesso per salari eccessivamente bassi o all’impossibilità per molti di spostarsi in grandi centri urbani non per la mancanza di voglia di mettersi in gioco o attaccamento eccessivo alla propria terra ma per affitti eccessivi che azzererebbero i vantaggi economici del nuovo lavoro, finendo in sostanza per lavorare non per un proprio progetto di vita ma per i “capitalisti” proprietari immobiliari), non sono la risposta adeguata e ricercata dalle nuove generazioni, il cui senso di minimalismo, anche se non è un modello da proporre, costituisce un tentativo di stile di vita che rifugga dai condizionamenti alienanti di questo tipo di economia, alla ricerca quindi, se non di un salario soddisfacente, quanto meno di un’attività lavorativa gratificante sul piano delle proprie aspirazioni e passioni. La nuova economia deve fondarsi sui sentimenti, sulla fragilità, sulla gioia, che è legata più alla condivisione, al noi, piuttosto che sulla felicità, più marcatamente individuale che riporta all’io egoistico. Nell’economia del “ben essere” il profitto (derivante dal latino proficere, ossia avanzare, progredire) rimane importante e funzionale e si affianca ad altri valori quali la stima di sé e dell’altro, la riconoscenza, la gioia, il sapere, l’esperienza e il tempo che passa. La stessa vecchiaia rappresenta un valore umano: il pensionato non deve essere assimilabile ad una macchina che ha terminato il ciclo produttivo ma un tesoro di valori e di esperienze che non decadono con l’età ma che con essa si esprimono anche con maggior forza. Nell’economia del denaro i desideri sono denaro dipendenti, nell’economia del “ben essere” essi sono invece indipendenti. Il sentimento di amore verso gli altri deriva anche dalla fragilità. Connessa alla natura umana, presente in ognuno, non significa debolezza ma senso dei propri limiti, dei limiti dell’essere umano, che generano quindi pietas, capacità di capire il dolore e la sofferenza altrui permettendo di avvicinarsi l’altro e quindi alla relazione. E’ necessario quindi passare da un’economia di ricchezza-potere che genera paranoia ad una di fragilità-valori che genera amore. Secondo l’autore due sono i fondamenti della nuova economia, educazione e lavoro, il primo come fattore propedeutico per il secondo. Le nuove generazioni sono alla ricerca non di un salario ma di un’esperienza di gratificazione personale, non un lavoro per vivere ma un lavoro che sia vita, soddisfacimento delle proprie aspirazioni, bilanciamento con la propria vita personale. Ne è testimonianza il fatto che sempre più le aziende che offrono un ambiente lavorativo stimolante, fatto di relazioni, di attività ludiche, di valorizzazione delle proprie opinioni e via dicendo sono ai primi posti nelle classifiche di preferenze rispetto a quelle dei vecchi modelli gerarchici nei quali si riduce l’uomo alla sola condizione gestuale e meccanica. Anche l’educazione deve staccarsi da un modello che ammaestra i giovani a diventare solo lavoratori. Inutile continuare a perpetuare modelli in cui gli studenti rimangono bloccati per cinque ore ciascuno sulla propria sedia senza interagire in modo più ampio, anche dal punto di vista fisico. Occorre superare un modello in cui le lezioni si svolgono in un silenzio che snocciola solo una serie d’informazioni che oggi, e sempre più in futuro grazie all’intelligenza artificiale, sono facilmente rintracciabili sui canali digitali, e invece occorre andare verso una scuola che favorisca un’attività di gruppo, al fine di risolvere problemi in comune, creare empatia e senso di appartenenza.  Il legame affettivo che ognuno di noi stabilisce con persone di valore dipende dalla fiducia, dal rispetto dell’autorevolezza, che derivano non dal denaro ma dal sapere, dalla coerenza del proprio vissuto, dalla credibilità di colui che sa vedere il futuro della comunità. Nella nuova economia il denaro deve tornare ad essere mezzo e non fine e quindi promuovere la cultura, la ricerca scientifica, la generosità nei confronti degli altri, la solidarietà, il lavoro gratificante ed economicamente soddisfacente, la gentilezza che può aiutare e sviluppare ulteriormente il turismo. Il concetto di riferimento è quello del focus sulla gioia piuttosto che sulla felicità, condivisione e comunità piuttosto che egoismo ed individualismo. Viene in mente un quadro famoso di Matisse, La gioia di vivere del 1906, i cui si combinano diverse figure in atteggiamenti ludici, dal riposo, alla danza. In esso si trovano diverse citazioni di opere precedenti, dalla “Colazione sull’erba” di Manet alle “Bagnanti” di Cezanne. Il quadro stesso, riprendendo la parte centrale che raffigura un girotondo, porterà a dipingere, qualche anno più tardi, le due versioni della Danza, forse il quadro più famoso dell’artista, oggi conservate al Moma di New York e all’Ermitage di San Pietroburgo. Nella versione più conosciuta dell’Ermitage, l’influenza dei colori accesi del periodo fauves suggerisce di dipingere di rosso le cinque figure femminili danzanti, immerse nel blu del cielo e il verde dei prati, un girotondo che evoca la gioia di vivere, in un movimento circolare che rappresenta un abbraccio universale, un senso di solidarietà, di eguaglianza tra persone che si tengono le mani, ricordando anche, attraverso la mano di una ballerina in primo piano che si stacca da quella dell’altra, il senso di caducità dell’esistenza.

Continua a leggere

I TASSI RIMANGONO ALTI: OPPORTUNITÀ NELL’OBBLIGAZIONARIO E BANCHE

  • 1321
  • 2
  • Titoli di Stato, Spread e Tassi di i
Scritto il 29.04.2024

Gli ultimi dati sulla forte crescita del PIL e un’ inflazione persistente in US hanno quasi azzerato le probabilità di tagli dei tassi di interesse nel 2024. Uno scenario che favorisce gli investimenti nell’azionario bancario e permette di accumulare obbligazionario, con rendimenti sempre più interessanti, su scadenze crescenti. Nell’ultimo articolo di dicembre scrivevo: “In sintesi, appare chiaro che tutte le previsioni sono state largamente condizionate dalle aspettative di una recessione che non si è materializzata e che, anche per il prossimo anno, rappresenta il tema cruciale. Da un lato, infatti, c’è chi sostiene che potrà ancora esserci (ci si riferisce ad un’ipotesi di hard landing) causata dai tassi di interesse troppo elevati che peseranno sempre più sull’economia, dall’altro chi invece sostiene che le banche centrali sono riuscite in maniera adeguata a mettere sotto controllo l’inflazione senza intaccare la crescita (soft landing) e che quindi, a breve, sarà opportuno iniziare a ridurre in tassi di interesse”. Ad oggi potremmo dire che tra i due litiganti il terzo gode: sta prendendo sempre più piede una terza ipotesi, ossia uno scenario di no landing. Come evidenziato dal grafico, che mostra le aspettative dei gestori professionali sugli scenari macro (tramite il sondaggio mensile di Bank of America), le probabilità di un hard landing, quindi di recessione, si sono ridotte dal 23% al 7%, mentre, pur rimanendo più probabile uno scenario soft landing, sta prendendo sempre più piede un’ipotesi (al 36%) in cui l’economia continua a crescere in maniera robusta, l’inflazione non scende più di tanto e, soprattutto, non ci si aspetta nessun taglio dei tassi di interesse nel 2024 da parte della FED. Rialzo di stime di crescita e inflazione Le cause che hanno portato a questo cambio di scenario sono da ricercare nelle attese di variazione di PIL e inflazione. Da un lato il FMI ha rivisto fortemente al rialzo le stime di crescita del PIL negli USA di un +1,2% nel 2024 e di un +0,1% nel 2025 rispetto ad ottobre 2023 portandole al 2,7% nel 2024 e all’1,9% per il 2025, dall’altro, durante il mese di marzo, l’inflazione USA è risultata superiore alle attese, con un 3,5% (3,2% annuo a febbraio) e un’inflazione core al 3,8%. In particolare, mentre l’inflazione sugli affitti è rimasta stabile, quella su altri servizi di base, tra cui sanità e trasporti, ha mostrato un’accelerazione. Sul lato dei costi delle materie prime l’indice Bloomberg Commodity è salito di quasi il 10% dai minimi di febbraio (ad esempio il prezzo del rame è salito di oltre il 20% negli ultimi 2 mesi) e questo potrebbe rendere ancora più complicata una riduzione dell’inflazione. L’indicatore pubblicato dalla FED di Atlanta sulla sticky inflation, ossia su un paniere di beni cui prezzi tendono a cambiare lentamente, è salito del 5% (su base annuale) nel mese di marzo. In questo nuovo scenario le probabilità di tagli dei tassi di interesse in US prezzate dai mercati finanziari, in questo caso attraverso il prezzo delle opzioni, sono scese vicine allo zero mentre cominciano a salire quelle di zero tagli e addirittura di un possibile ritocco al rialzo. La conseguenza è che nel mese di aprile abbiamo visto di nuovo un aumento dei rendimenti sul decennale americano che si è riportato intorno al 4,6%, avvicinandosi di nuovo ai massimi di periodo del 5% toccati a ottobre 2023. In Europa la situazione appare diversa. Le previsioni del FMI di crescita del PIL per l’area euro sono per uno 0,8% nel 2024 e dell’1,5% nel 2025 (Italia 0,7% in entrambi gli anni) mentre l’inflazione dovrebbe scendere dal quasi 7% registrato nel 2023 al 2,4% nel 2024 e al 2,1% nel 2025. La divergenza tra Europa e Stati Uniti sia nella crescita economica sia nei tassi di inflazione comporterà quindi una divergenza nella politica monetaria, permettendo alla BCE di iniziare un taglio dei tassi che, secondo il FMI, dovrebbero passare, entro fine 2024, dal 4% attuale a circa il 3,3%. Un primo taglio dei tassi è quasi certo a giugno in base anche alle recenti dichiarazioni della Lagarde mentre su ulteriori tagli sarà molto interessante ascoltare il comunicato e le dichiarazioni da parte della BCE in occasione del meeting di giugno. Cosa fare adesso? Obbligazionario Dai minimi di ottobre in poi i prezzi delle obbligazioni hanno subito una forte crescita sull’attesa di un’imminente inversione della politica monetaria con previsioni che si spingevano fino a 6 tagli durante il 2024. Il mutato contesto macroeconomico, come abbiamo visto, ha riportato la situazione quasi verso i minimi di ottobre, fornendo nuove opportunità di acquisto a prezzi interessanti. A chi, entrato ad ottobre con un’ottica di breve periodo, ha già liquidato le posizioni e incassato interessanti guadagni, si potrebbe dire “altro giro, altra corsa”, avendo la possibilità di ripetere l’operazione con prezzi non lontani dalle quotazioni di ottobre. Chi invece ha comprato in ottica di lungo periodo, siede ancora su alcuni punti di guadagno in conto capitale oltre a 6 mesi di cedole già incassate e può continuare a godersi la navigazione oppure aumentare l’esposizione magari con l’idea anche di un’operazione di pochi mesi, in particolare sul mercato obbligazionario europeo dove la discesa dei tassi è non solo più probabile ma anche più vicina nel tempo rispetto agli USA. Azionario Il rally azionario degli ultimi 6 mesi è stato spinto da una recessione che non si è concretizzata, da una continua revisione al rialzo delle stime di crescita in particolare negli USA (anche guidata da un contributo delle prospettive dell’intelligenza artificiale, vedi la performance di Nvidia) e dalle attese di una forte riduzione dei tassi. Le più recenti previsioni sulla traiettoria dei tassi di interesse, sostanzialmente stabili e non in discesa per i prossimi mesi, hanno contributo a rivedere le valutazioni azionarie manifestandosi in una correzione dai massimi di oltre il 5% durante il mese di aprile, correzione fisiologica considerando anche il rally che in 6 mesi ha portato l’S&P500 dai 4100 agli oltre 5200 punti di fine marzo. Su base settimanale l’analisi grafica mostra già una chiara tendenza al ribasso che potrebbe anche accentuarsi (o ridursi) anche sul grafico mensile che chiude tra poche sedute. Un primo punto d’ingresso interessante potrebbe essere in area 4600, ossia un -8% dai prezzi attuali. Su base settoriale la prospettiva di tassi di interesse ancora elevati per un periodo più prolungato rispetto al previsto nonché le valutazioni ancora a sconto su base storica dovrebbero continuare a sostenere le quotazioni delle banche, nonostante il rally. La casa di investimento Algebris ci ricorda come la media storica del forward P/E (in rapporto prezzo/utile prospettico) del settore bancario europeo si attesti a circa il 10x, a fronte di un valore ad oggi di 7x, vicino ai minimi storici degli ultimi 20 anni, registrati solo dopo la crisi finanziaria del 2009 e nel 2012. In particolare, maggiori potenziali di apprezzamento potrebbero esserci per le valutazioni degli istituti di credito con minore rating che hanno già iniziato a sovraperformare gli istituti con rapporti P/E maggiori negli ultimi 2 mesi, a dimostrazione di come gli operatori cerchino ora di focalizzarsi su quelle occasioni di acquisto con valutazioni più a sconto.

Continua a leggere

LE PREVISIONI (giuste e sbagliate) DEL 2023 E IDEE PER IL 2024

  • 1247
  • 1
  • Mercati finanziari / economia
Scritto il 28.12.2023

Fine anno. Tempo di consuntivi. Sono andato a riprendere le indicazioni generali sui mercati finanziari fornite dalle case di investimento, analizzandole in parallelo alle mie. Indicazioni delle case di investimento Partiamo dalle analisi delle grandi istituzioni finanziarie mondiali. Un primo dato che balza all’occhio è che sul mercato azionario le previsioni sono state troppo conservative in attesa di una recessione che non si è affatto palesata. Corretta l’aspettativa di una debolezza del mercato azionario, soprattutto nella prima fase del 2023, mentre non si sono visti i nuovi minimi sul mercato, che ha mostrato momenti di correzioni importanti solo a inizio primavera e fine ottobre. Chi si aspettava, quindi, di vedere l’indice S&P500 a circa 3900 a fine anno (come Morgan Stanley ad esempio), più o meno lo stesso livello di partenza di inizio 2023, se lo ritrova oggi a 4800. Anche chi si aspettava un indice in forte rialzo per fine anno, come Deutsche Bank (previsione di 4500 a fine 2023), una voce fuori dal generale consenso pessimista, ipotizzava tuttavia nuovi minimi (intorno a 3200), che, come detto, non sono stati registrati. Mi ha incuriosito andare a vedere come a fine 2021 le previsioni generali puntavano a un forte rialzo del mercato azionario americano, con valori a fine 2022 che oscillavano tra i 4,400 e gli oltre 5000, e come tali previsioni siano state largamente disattese, con l’indice che ha chiuso l’anno intorno ai 3900 punti. In conclusione: negli ultimi 2 anni il mercato azionario si è comportato all’opposto rispetto alle previsioni della larga parte delle case di investimento. Si potrebbe dire, scherzosamente che se non c’è 2 senza 3, nel 2024, per non sbagliare, basterebbe fare l’opposto di quello che prevede la maggioranza degli esperti. La fallacità delle indicazioni sul mercato azionario è figlia della previsione non verificatasi di una recessione.Un anno fa avevo riportato il dato di un sondaggio di KPMG nel quale il 91% degli amministratori delegati delle aziende contattate si attendeva una recessione nei successivi 12 mesi, con 2/3 dei rispondenti che prevedano un periodo di difficoltà prolungato. L’economia americana ha invece stupito: Il PIL degli USA, nel solo terzo trimestre 2023 è cresciuto del 4,9%. La forza dell’economia americana, di conseguenza, ha impedito che l’Europa soffrisse di una vera recessione sostituita da una crescita, seppur modesta. Solo la Germania ha fatto registrare una recessione statisticamente conclamata, ma pur sempre lieve. Riguardo all’inflazione, la previsione di un picco inflattivo raggiunto nel 2022 e di una sua discesa è stata ampiamente confermata dai dati. Infatti, il forte ridimensionamento dei prezzi del gas, che erano esplosi con lo scoppio della crisi ucraina, e del petrolio, forniva solide basi per un’importante riduzione dei tassi d’inflazione, che, nell’ultima rilevazione di novembre, negli USA si è attestata al 3,1% (quella core rimane al 4%) e al 2,4% (core al 3,6%) nell’area euro. Tuttavia, in pochi si attendevano una persistenza di valori sostenuti dell’inflazione, soprattutto considerando una recessione in arrivo: la core inflation negli USA è rimasta a oltre il 5% fino a maggio, e solo da agosto in poi si è attestata sotto il 4,5%. Anche riguardo al mercato obbligazionario le indicazioni erano alquanto favorevoli. Ancora una volta, questa scelta era legata ad una previsione in una recessione in arrivo che avrebbe favorito un taglio dei tassi piuttosto che un continuo innalzamento, come poi accaduto, che sembra essersi arrestato solo di recente. La chiamata sulle obbligazioni quindi, per chi avesse voluto solo puntare sul guadagno in conto capitale, è risultata troppo anticipata mentre più corretta se vista nell’ottica di un accumulo di obbligazioni con rendimenti alquanto interessanti che non si vedevano da anni (dopo le politiche del quantitative easing che avevano portato a tassi nulli o negativi sulle scadenze anche entro i 5 anni). In sintesi, appare chiaro che tutte le previsioni sono state largamente condizionate dalle aspettative di una recessione che non si è materializzata e che, anche per il prossimo anno, rappresenta il tema cruciale. Da un lato infatti c’è chi sostiene che potrà ancora esserci (ci si riferisce ad un’ipotesi di hard landing) causata dai tassi di interesse troppo elevati che peseranno sempre più sull’economia, dall’altro chi invece sostiene che le banche centrali sono riuscite in maniera adeguata a mettere sotto controllo l’inflazione senza intaccare la crescita (soft landing) e che quindi, a breve, sarà opportuno iniziare a ridurre in tassi di interesse (come a dire l’amara medicina ha funzionato e possiamo smettere adesso di somministrarla). Su questa aspettativa, oggi condivisa dalla maggiore parte degli operatori, il mercato azionario e quello obbligazionario hanno messo a segno un rally formidabile negli ultimi 2 mesi. Le mie indicazioni d’inizio anno Un anno fa scrivevo: “Preferenza per le obbligazioni inflation-linked soprattutto con scadenze a 2-3 anni e continuo accumulo sui ribassi di obbligazioni a più lunga scadenza (10-15 anni) in attesa di un inizio di taglio dei tassi tra fine 2023 e 2024. Interessante anche una piccola esposizione al debito dei mercati emergenti in previsione di un dollaro che dovrebbe aver perso la sua forza (anche se rimane sempre il rischio di un fly-to-quality in caso di shock estremi nel sistema). Probabili nuovi minimi e rally azionari di ricopertura di posizioni short per cui accumulo azionario su ribassi e vendita parziale (o totale se si ha un’ottica più di breve periodo) delle posizioni sui rialzi anche importanti che dovremmo vedere”. Cosa è successo un anno dopo Obbligazioni legate all’inflazione a breve scadenza: l’ETF Lyxor Core Euro Goverment Inflation Linked bond ha messo a segno una performance di oltre il 5,5%. Il BTP Italia, con scadenza maggio 2025, quota (corso secco) circa lo stesso prezzo d’inizio 2023 ma ha distribuito una cedola del 4,8% a maggio e una dell’ 1,7% in novembre. L’avere puntato su un’inflazione ancora persistente nel 2023 ha permesso di portare a casa rendimenti che nemmeno sui tassi 12 mesi è stato possibile ottenere (l’Euribor a 12 mesi a gennaio 2023 era intorno al 3,3%) Obbligazioni a lunga scadenza: il BTP feb37 4% ha registrato un aumento di prezzo di quasi l’11% da inizio anno (oltre al 4% di cedola distribuita); un fondo obbligazionario sui titoli governativi,  quale il DWS Invest Euro- Gov Bonds, riporta una performance di quasi l’8% da inizio anno. La frase chiave a mio parere è stata “continuo accumulo sui ribassi di obbligazioni a più lunga scadenza (10-15 anni) in attesa di un inizio di taglio dei tassi tra fine 2023 e 2024”. Anche se durante tutto il 2023 le quotazioni sono state interessanti, solo tra fine settembre e fine ottobre 2023 si sono visti prezzi più favorevoli sui governativi italiani rispetto ai primi giorni dell’anno. In particolare, il rally dei prezzi si è avuto sulle attese di uno stop al rialzo dei tassi e la previsione di un taglio durante il 2024. La scelta di puntare su scadenze più lunghe è stata ampiamente premiata negli ultimi 2 mesi e soprattutto gratifica chi ha preferito la gallina domani piuttosto che l’uovo oggi, evitando di concentrare troppe risorse sulle scadenze brevi, probabilmente destinate a vedere scendere i rendimenti nel prossimo anno. Dollaro: le quotazioni del dollaro contro euro sono passate da 1,06 a circa 1,11, a conferma della prevista debolezza della valuta americana. Durante l’anno le quotazioni, pur tra alti e bassi, non sono scese oltre andate oltre 1,05 a conferma di un livello oltre il quale difficilmente conviene detenere dollari americani. Mercato Azionario: la vera sorpresa del 2023, come ricordato, è stata la forza del mercato azionario, in particolare quello statunitense (e qui invece è più facile prevederlo) rispetto al mercato europeo. Nuovi minimi sia rispetto al minimo di ottobre del 2022 che rispetto al valore di inizio 2023 non sono stati registrati. In particolare l’indice azionario europeo Eurostoxx 50 per ben due volte (marzo e ottobre) si è riportato vicino ai valori di fine anno ma non li hai mai violati al ribasso. Rialzi importanti dell’ordine del 15% si sono avuti proprio tra marzo e agosto e tra inizio novembre e fine Un valido punto di ingresso sull’S&P 500 negli ultimi 2 anni è stato, come correttamente indicato sia nel febbraio (vedi mio articolo “Mercato azionario: cosa e quando comprare” del 1/2/2022) che nell’ottobre 2022, intorno ai valori di 3600, quotazioni che si sono viste solo a fine giugno e in ottobre del 2022. In particolare, il minimo di ottobre 2022 si è poi rivelato anche il migliore punto di ingresso degli ultimi due anni, qualcosa che, nonostante le buone probabilità iniziali, non si ripetuta nel corso di quest’anno. dicembre. Questo a conferma che quando ci sono occasioni importanti sui mercati finanziari, debbano essere colte, altrimenti il rischio è di non poterle rivedere per anni. Ormai prossimi ai brindisi di fine anno, vale la pena ricordare la citazione di Renzo Arbore in quel famoso spot pubblicitario di una nota birra italiana: “Meditate gente. Meditate”. Grafico S&P500 pubblicato il 1/2/2022

Continua a leggere

MERCATI OBBLIGAZIONARI E AZIONARI: COSA FARE DOPO IL RALLY DI NOVEMBRE?

  • 1026
  • 1
  • Mercati finanziari / economia
Scritto il 07.12.2023

Il mese di novembre ha fatto registrare importanti rialzi sia sul mercato azionario che quello obbligazionario. Nello specifico, in uno dei migliori mesi di novembre di sempre, l’indice azionario americano S&P500 è salito di quasi il 9%: dal 1928, in quasi quindi 100 occasioni, è solo la sesta volta che il rialzo mensile supera l’8,2%.Questo movimento ha riportato gli indici ai valori di fine luglio, quando era partita una correzione importante conclusasi a metà ottobre con un calo del 10% dell’indice. Anche i titoli di stato italiano hanno messo a segno un 5% di rialzo nel mese di novembre, in aggiunta al movimento di rialzo, anch’esso partito a metà ottobre. Il rally ha riassorbito completamente il calo estivo che indicava una perdita di fiducia dei mercati finanziari sul merito di credito dell’Italia. In particolare, il decennale italiano ha visto una diminuzione dei prezzi di circa il 7% da fine luglio, toccando i minimi il 19 ottobre, andando a ritestare i livelli che si erano visti a settembre e dicembre 2022 quando, complice le incertezze sulla finanziaria del nuovo governo Meloni, lo spread era salito e i rendimenti avevano toccato quasi il 5%. Solo nel mese di novembre, il BTP decennale ha visto un aumento del 5% circa dei prezzi, con rendimenti in calo che si attestano ora al 4% circa. La riduzione dei rendimenti dei governativi italiani è legata a due fattori: 1) il giudizio positivo delle agenzie di rating, in particolare di Moody’s che, nel recente passato, era stata la più critica; 2) i dati sul rallentamento dell’inflazione negli Stati Uniti e in Europa che hanno comportato la tanto attesa pausa dei rialzi dei tassi da parte delle banche centrali. Agenzie di rating sull’Italia Il primo giudizio positivo per l’Italia è arrivato il 20 ottobre da parte di Standard&Poor, con la conferma del rating precedente (BBB) e outlook stabile, rimarcando, tuttavia, alcune criticità, ossia un rapporto debito/PIL che fa fatica a scendere, un disavanzo maggiore rispetto alle previsioni di primavera, incertezze sui tassi di crescita dell’economia. Successivamente sia DBRS il 27 ottobre che Fitch, il 10 novembre, hanno confermato i giudizi in essere. Ad ogni modo, la valutazione più temuta era quella di Moody’s che non aveva aggiornato il giudizio a maggio specificando che, dei paesi analizzati, l’Italia era l’unico a rischiare di perdere la valutazione di “investment grade”, ossia di paese di cui si ha ancora fiducia di poter investire nel debito pubblico. Circa un anno prima, infatti, Moody’s aveva peggiorato l’outlook (ossia le previsioni del trend di fondo) da stabile a negativo, sottolineando rischi quali le riforme strutturali, l’approvvigionamento energetico (si era in piena crisi del gas a seguito del conflitto Russia-Ucraina con rischi di razionamento delle forniture) e un deterioramento della sua solidità fiscale legata ad una crescita in rallentamento, maggiori costi di finanziamento e rischi sulla disciplina fiscale da parte del governo. Fortunatamente, il 17 Novembre, l’agenzia non solo ha confermato il suo rating ma ha anche innalzato l’outlook da negativo a stabile, motivandolo grazie ad una stabilizzazione dell’economia (attuazione del PNNR e riduzione dei rischi sulle forniture energetiche), la salute del settore bancario in grado di sostenere la crescita economica e le più favorevoli dinamiche sul debito pubblico. Andamento inflazione e tassi Il contributo principale alla riduzione dei rendimenti in Italia, tuttavia, è legato non tanto al giudizio delle agenzie di rating quanto all’andamento generale delle prospettive di inflazione in USA, in primis, e in Europa.Infatti, il 26 ottobre la BCE, per la prima volta dopo 10 rialzi consecutivi, ha deciso di non aumentare i tassi di interesse indicando che, in base ai modelli econometrici dell’istituto, i tassi attuali sono coerenti con il target d’inflazione al 2%, tendenzialmente raggiungibile nel 2025. Circa una settimana dopo anche la FED ha ribadito la decisione attendista di non innalzare ulteriormente i tassi di interesse, e anche non escludendo possibili ulteriori rialzi in futuro, ha indicato che la gran parte del lavoro è stata fatta, prevedendo un rallentamento dell’economia e un deterioramento del mercato del lavoro. Un ulteriore dato sull’inflazione USA in ottobre (3,2% rispetto al 3,7% di settembre), in rallentamento maggiore rispetto alle attese (3,3%) insieme a dati di una leggera contrazione (-0,1%) dell’economia dell’eurozona nel terzo trimestre hanno fornito ulteriori elementi per sostenere la tesi di un picco dei tassi già raggiunto e, potenzialmente, possibili tagli nel 2024, qualora il trend discendente dell’inflazione fosse confermato e aumentasse il rischio di debolezza della crescita economica mondiale. Già in ottobre il Fondo Monetario Internazionale aveva previsto un 3% di crescita del PIL mondiale nel 2023 (3,5% nel 2022) tagliando dal 3% al 2,9% le stime per il 2024, con una crescita delle economie avanzate dell’ 1,4% nel 2024. In particolare, la crescita della zona euro era stimata allo 0,7% nel 2023 e 1,2% nel 2024, con una recessione per la Germania (-0,5%) nel 2023 e un rimbalzo nel 2024 (+0,9%), mentre per l’Italia si prevedeva una crescita dello 0,7% sia nel 2023 che nel 2024. Riguardo all’inflazione le stime erano del 5,6% nel 2023 e del 3,3% nel 2024 per la zona euro; del 6% nel 2023 e del 2,6% nel 2024 per l’Italia. I movimenti dei tassi di interesse e soprattutto le aspettative per una politica economica meno restrittiva hanno, di conseguenza, supportato il mercato azionario che, circa una settimana dopo il minimo del mercato obbligazionario, ha iniziato una risalita di oltre il 12% dai minimi del 27 ottobre. La visione attuale del mercato è quella di un soft landing, nella quale si prevede solo un rallentamento della crescita economica ma non una recessione, grazie al calo dell’inflazione, che sostenendo i salari reali, possa sostenere la domanda di consumo. Ad esempio, UBS assegna una probabilità del 60% allo scenario di soft landing nei prossimi 12 mesi, stimando che i tassi sul decennale americano possano scendere al 3,5% con l’indice S&P500 visto a 4700 punti. Nelle sue ultime stime l’OCSE prevede una crescita del PIL negli USA dell’1,5% nel 2024 (dal 2,4% del 2023) e del PIL mondiale del 2,7% nel 2024 contro un 2,9% del 2023. Più debole la crescita in Europa prevista allo 0,9% nel 2024. Indicazioni valide Nell’ultimo articolo di fine luglio avevo indicato che “La strategia migliore è, da un lato acquistare obbligazioni/fondi di investimento con duration elevate, approfittando di rialzi dei rendimenti in particolari momenti”.  Ebbene, proprio nel mese di ottobre abbiamo rivisto prezzi davvero favorevoli per l’acquisto di obbligazioni governative italiane e non, che solo un anno fa avevamo potuto cogliere. Tuttavia, rispetto ad un anno fa vi è una differenza sostanziale. Mentre nella 2022 i prezzi erano interessanti in termini assoluti ma si aveva poca visibilità sull’andamento prospettico dei tassi in futuro e dell’inflazione, nell’ultimo ribasso sono aumentati gli indizi in favore della fine del rialzo dei tassi e un calo definitivo dell’inflazione: l’economia era già in rallentamento, l’inflazione dimostrava un trend in calo, i tassi erano già stati aumentati ripetutamente. L’occasione per allungare le scadenze è stata davvero ghiotta e ha premiato coloro che hanno investito “approfittando di rialzi dei rendimenti in particolari momenti”. Sul lato azionario nello stesso articolo del 28 luglio 2023 scrivevo “A chi non avesse acquistato su correzioni importanti (come consigliato nell’articolo del 23 ottobre 2022), sconsiglierei entrate importanti sull’azionario in questa fase”. Cosa è successo poi? Da fine luglio è partita una correzione sul mercato azionario di oltre il 10% su S&P500 (oltre il 12% sul Nasdaq) che, come abbiamo visto, si è arrestata a fine ottobre. Quando potrebbe esserci ancora una correzione di tale entità? Il grafico sottostante mostra che, mediamente, negli ultimi 70 anni, correzioni dai massimi relativi di almeno il 10% avvengono con una frequenza di poco più di un anno. Effettivamente, nel 2023, l’unico ribasso del mercato azionario americano è stato quello tra febbraio e marzo che tuttavia è stato minore del 10%. E’ probabile quindi che avremo un simile movimento anche il prossimo anno. Cosa fare adesso? Il titolo di una celebre commedia di Shakespeare, “Molto rumore per nulla” (Much Ado About Nothing nell’originale), potrebbe applicarsi probabilmente a questa fase: sia le quotazioni del mercato azionario che quello obbligazionario sono ritornate agli stessi valori di fine luglio. Non è cambiato nulla? In verità sì, perché il mercato obbligazionario è molto probabile che abbia toccato il massimo dei rendimenti anche se, potremmo riavere una fiammata inflazionistica, come negli anni ’70 dopo una prima fase di calo, che costringerebbe le banche centrali a mantenere i tassi ufficiali “elevati per un periodo prolungato” (un mantra che le stesse banche centrali ripetono da mesi) o addirittura al rialzarli ulteriormente. Riguardo al mercato azionario, tornato quasi sui massimi storici, in realtà le preoccupazioni potrebbero essere maggiori adesso rispetto a luglio. Il grafico mostra come, storicamente, i mercati azionari vadano in recessione (ossia correzioni maggiori del 20% dai massimi) dopo che la FED inizia a tagliare i tassi. Le previsioni dello scorso anno indicavano un serio rischio di recessione nel 2023. C’è sicuramente stato un rallentamento in Europa e la stessa Germania è andata in recessione ma gli Stati Uniti, il vero motore dell’economia mondiale, hanno sorpreso per i suoi tassi di crescita. Storicamente, quindi, i tagli dei tassi d’interesse arrivano quando ci si rende conto che l’economia è entrata in recessione oppure si è scatenata una crisi finanziaria (ad esempio quella del 2008 innescata dei mutui subprime) ed è necessario intervenire attraverso una politica monetaria adeguata. Il mercato azionario è ben impostato al rialzo ancora per il mese di dicembre, in linea anche con il suo andamento stagionale. Tuttavia, difficile ipotizzare un mercato azionario spumeggiante nel 2024 in questa fase. Dicembre è il mese in cui le varie case di investimento iniziano a far circolare i report con le previsioni per il nuovo anno. Vedremo nelle prossime settimane l’umore degli strategist di mercato.  

Continua a leggere

Investire sulla lunga scadenza dei Bond

  • 1545
  • 3
  • Obbligazioni - investimenti obbligaz
Scritto il 28.07.2023

SE NON HAI FATTO IL 10% IN UN ANNO CERCA UN NUOVO CONSULENTE Se nell’ultimo anno non hai raggiunto un 9-10% di rendimento senza particolari rischi, è il momento di considerare un nuovo consulente.  Alle domande come investire 5.000 euro,  come investire 10.000, come investire 20.000 euro, come investire 30.000 euro, come investire 50.000 o come investire 500.000,  alla luce di un’inflazione dal 5% al 10%, la risposta migliore nell’ultimo anno sarebbe stata sempre la stessa, ossia uno strumento che avesse sicuramente un rendimento reale come il BTP Italia. Mentre molti lo sconsigliavano in quanto si prevedeva che l’inflazione non avrebbe raggiunto i picchi che abbiamo visto e si sarebbe raffreddata rapidamente, io lo caldeggiavo (vedi articolo del gennaio 2021). E se te lo sei perso? Oggi mentre molti consigliano scadenze brevi per sfruttare i tassi molto alti a un anno, io consiglio di allungare le scadenze, investire quindi su obbligazioni con scadenza minima di 10 anni, meglio 15-20. Vediamo perché nella seguente analisi. Analisi storica dei tassi di interesse La lezione degli anni ‘70 che ha spinto oggi le banche centrali ad un’azione così rapida e forte nei rialzi dei tassi è legata agli errori commessi in quegli anni in cui, non avere agito alla prima ondata inflazionistica in maniera forte, permettendo all’inflazione di radicarsi nelle aspettative e nei comportamenti di imprese e lavoratori, provocò una seconda ondata inflazionistica ben più forte, con la necessità di portare i tassi d’interesse fino al 21%, provocando una profonda recessione negli Stati Uniti e nel resto del mondo. Prima ondata inflazionistica: La prima ondata fu causata da un’impennata del prezzo del petrolio di oltre il 300% in pochi mesi, il tutto scatenato dalla crisi del Kippur del 1973 (Israele attaccato dall’esercito egiziano) e dall’abbandono da parte di Nixon del regime del gold standard, cioè la convertibilità del dollaro in oro, con i paesi arabi che aumentarono i prezzi del petrolio per compensare la svalutazione del biglietto verde. Seconda ondata inflazionistica: Nel 1979, una seconda crisi petrolifera fu scatenata, anche in questo caso, da eventi politici, ossia la rivoluzione islamica in Iran e la successiva guerra con l’Iraq di Saddam Hussein che portarono ad un forte calo della produzione petrolifera e un’impennata nei prezzi del greggio. Nel 1980 tutti i paesi avanzati registrarono tassi di inflazione superiori al 10%, con livello del 21% in Italia, 18% nel Regno Unito, 15% in Spagna e 13% negli Stati Uniti e in Francia. Non a caso, i tassi di interesse nominali in Italia arrivarono al 20%. Analizzando l’andamento storico dei tassi di interesse negli Stati Uniti emergono alcuni dati interessanti: 1) Tassi sopra il 5-6% si sono avuti tendenzialmente in un periodo di circa 20 anni che va dal 1968 al 1990, ossia nel periodo delle grandi crisi petrolifere 2) Ogni volta che arriva una recessione i tassi vengono tagliati per combatterla 3) C’è stata un’anomalia storica dei tassi a zero tra il 2008 e il 2016 e un tentativo successivo di uscirne dal 2016, fallito poi anche a causa del covid. Storicamente, la media calcolata su base mensile è del 4,60% mentre la media calcolata escludendo i due periodi anomali, ossia 1970-1990 e 2008-2016, è del 3,5%. E’ evidente quindi che tassi oltre il 5%, come gli attuali, a meno di considerare di essere in una situazione simile a quella deli ani 70-80, rappresentano un limite superiore abbastanza importante e statisticamente significativo.   Scenari possibili Da qui in avanti potremmo avere, a mio parere, i seguenti scenari: L’inflazione continua a scendere e quindi i tassi dovranno iniziare a scendere, prima o poi, per ripristinare una politica economica neutrale o accomodante: il conseguente aumento dei prezzi obbligazionari porterebbe a forti guadagni in conto capitale oltre a bloccare cedole annuali su livelli elevati. L’inflazione rimane persistente a livelli considerati troppo elevati e quindi è necessario alzare i tassi ulteriormente: la perdita potenziale in conto capitale sarebbe momentanea in quanto una quasi certa recessione successiva porterebbe a drastici tagli dei tassi e un recupero dei prezzi obbligazionari. I tassi eccessivamente alti creano forti crepe nel settore immobiliare e nel sistema finanziario, rendendo necessario un nuovo QE e un aggressivo taglio dei tassi così come avvenne all’indomani della crisi del 2008. Anche in questo caso i prezzi delle obbligazioni, in particolare a lunga scadenza, sarebbero favoriti. L’inflazione torna a crescere, si paventa uno scenario simile a quello degli anni ’70, ed è necessario portare i tassi a livelli del 7-10% o oltre. E’ lo scenario meno probabile ma una recessione inevitabile e forte porterebbe di nuovo i tassi verso il basso, almeno ai valori attuali. Confronto tra BTP Italia maggio 2025 e borsa a due anni. Lasciando da parte la brillante, e inattesa, performance azionaria delle borse nel mese di luglio, e confrontando la performance del BTP Italia scadenza maggio 2025 con la performance azionaria sul periodo di 2 anni da giugno 2021 notiamo come il BTP Italia ha generato un rendimento ormai incassato del 9% (17% circa di cedole a fronte di un -8% in conto capitale avendolo comprato a circa 108) mentre il FTSEMIB  total return index mostra una performance del 10% (ma la borsa italiana è tra le migliori al mondo) mentre il DAX è al 3%. In pratica, chi avesse puntato sulla borsa tedesca avrebbe oggi, dopo 2 anni, più o meno lo stesso capitale iniziale ma avendo dovuto affrontare una perdita potenziale fino al 25-30% (con i minimi intorno ad ottobre 2022), perdita magari incamerata se, spaventato, avesse deciso di uscire dall’investimento. Ricordiamo che il BTP Italia ha pagato cedole del 10% nell’ultimo anno.   Con questo esempio, non voglio indicare che non è opportuno investire sul mercato azionario ma solo che: 1) È necessario farlo avendo un approccio di lungo periodo, sfruttando le opportunità migliori quando si presentano 2) la scommessa sui bond obbligazionari (vedi articolo del gennaio 2021) legati all’inflazione era da preferire nel contesto che di stava delineando e avrebbe portato a risultati migliori o simili all’azionario con una volatilità ed un rischio molto minori nel periodo dei 2 anni analizzato. Infine, il recupero del mercato azionario dai minimi di ottobre 2022, nonostante i tassi in rialzo dovuti all’inflazione persistente, non sorprende se analizzati in un’ottica storica.  In un precedente articolo del 2 aprile 2022 avevo citato un’analisi storica di Goldman Sachs che indicava come, anche in una situazione di inflazione elevata e rialzo dei tassi, se in presenza di crescita dell’economia, il mercato azionario tende ed essere positivo. Fino a quando, per tassi elevati o altri fattori esterni, non dovesse materializzarsi la recessione più attesa della storia (a fine Dicembre 2022 la Survey of Professional Forecasters della Fed di Filadelfia indicava la più alta probabilità di recessione per i prossimi 12 mesi dei 55 anni di storia dell’indagine), difficilmente avremo correzioni importanti sull’azionario. Politica monetaria di FED e BCE Nel meeting del 26 di luglio la Fed ha alzato di un altro 0,25% i tassi, come da aspettative, portandoli intorno al 5,25-5,5%. Tra i punti interessanti indicati da presidente della FED durante conferenza stampa vi sono i seguenti: 1) E’ assai positivo che la Fed stia riducendo l’inflazione senza impattare sul mercato del lavoro che rimane forte, a livelli record con valori di disoccupazione appena del 3.6%, anche se vi sono molti segnali di un raffreddamento in linea con quello che storicamente accade, ossia un innalzamento della disoccupazione al crescere dei tassi di interesse 2) Non si prevede un taglio dei tassi quest’anno mentre l’inflazione target al 2% difficilmente sarà raggiunta prima del 2025 3) La Fed è focalizzata sulla core inflation che rimane ancora molto elevata (“quite elevated”). L’ultima considerazione di Powell sulla core inflation (al 4,8% nell’ultima rilevazione) è quella più interessante a mio parere: la Fed, memore della seconda ondata inflattiva degli anni ’70, vuole evitare che si ripeta la stessa situazione di quegli anni e quindi accetterà piuttosto un rischio di portare i tassi troppo in alto rispetto al dovuto (provocando probabilmente una recessione), confortata dal fatto che i segnali di recessione sembrano indebolirsi e che le probabilità che ciò accada sono diminuite nelle stime degli economisti. Anche la BCE, che ieri ha comunicato un rialzo dei tassi di un ulteriore 0,25%, portando quelli di deposito al 3,75%, ha rilasciato una comunicazione in linea con la Fed: inflazione in calo ma ancora alta (la core inflation è oltre il 5%), forte determinazione a combattere inflazione e quindi ancora rialzi se necessari, decisioni che verranno prese mese per mese in base ai dati che provengono dall’economia senza un approccio pregiudizievole o precostituito. Le indicazioni delle banche centrali dimostrano come esiste un pericolo che in tassi continuino a salire, andando anche oltre un livello adeguato per combattere l’inflazione. Il pericolo è accresciuto dal lag temporale che esiste tra rialzo dei tassi e gli effetti di rallentamento dell’economia: non a caso diversi commentatori ed economisti sono preoccupati dal fatto che le banche centrali non stiano dando tempo all’economia di mostrare adeguati segnali di rallentamento e che, con un comportamento non lineare, potrebbero materializzarsi poi improvvisamente e in maniera accentuata, al pari di un palloncino che sembra tenere prima di scoppiare: in dati di ieri del PIL in US confermano una crescita dell’ economia ancora forte e sopra le aspettative. Questo è un pericolo reale in quanto abbiamo visto come, memori della lezione degli anni ’70, le banche centrali non si curino troppo della crescita in questa fase e siano disposte ad affossarla pur di portare l’inflazione sotto controllo. Se cioè si verificasse, avremmo una sicura recessione negli Stati Uniti e un rapido taglio dei tassi. Conclusioni: Oggi siamo di fronte ad un’occasione storica per allocare una parte, anche importante, del proprio portafoglio su obbligazioni di lunga durata e/o fondi che abbiamo una duration lunga. La strategia migliore è, da un lato acquistare obbligazioni/fondi di investimento con duration elevate, approfittando di rialzi dei rendimenti in particolari momenti, dall’altro parcheggiare il resto della liquidità su scadenze obbligazionarie a 3-6 mesi da usare per ingressi sulle obbligazioni a lunga scadenza o sull’ azionario qualora se ne presentasse l’opportunità. Nel mercato azionario è importante essere sempre investiti ma è necessario entrare o aumentare l’esposizione soprattutto quando ci sono correzioni importanti. Quando questo non avviene si può farlo tramite un piano di accumulo graduale su base temporale e base discrezionale e nello stesso tempo cercare alternative migliori. A chi non avesse acquistato su correzioni importanti (come consigliato nell’articolo del 23 Ottobre 2022), sconsiglierei entrate importanti sull’azionario in questa fase. Se il tuo consulente finanziario non ti ha parlato di BTP Italia negli ultimi due anni e ti ha proposto seriamente solo i soliti fondi di investimento, comincia a cercarne un altro.

Continua a leggere

LA DEMOCRATIZZAZIONE DELLA CONOSCENZA: DALLA SCRITTURA ALL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE, POTENZIALITÀ E PERICOLI

  • 869
  • 1
  • Intelligenza artificiale
Scritto il 31.05.2023

Siamo agli albori di un passaggio epocale nella diffusione della conoscenza tra uomini e civiltà grazie agli sviluppi attuali e futuri di intelligenza artificiale (AI) e realtà virtuale. Tutto questo apre scenari di grande sviluppo culturale per le società e gli individui ma allo stesso tempo pone rilevanti problemi di organizzazione sociale, politica oltre a nuovi interrogativi etici a cui rispondere. Nella seguente analisi storica vedremo come si è giunti a questo momento di probabile “discontinuità storica”. Nella storia di come il sapere umano si diffonde tra gli individui, un primo passaggio fondamentale è quello che vede la scrittura mettere nero su bianco lo scibile di tradizione orale e quindi di cultura dei popoli, accumulato nel passato. In ambito occidentale questo passaggio viene fatto coincidere, solitamente, con la scrittura dei testi di Iliade e Odissea, in un periodo databile tra i secoli VIII e V prima di Cristo. La scrittura nasce con i Sumeri e gli Egizi, circa 3000 anni prima di Cristo, tuttavia scrittura e letteratura non coincidono cronologicamente: infatti, i testi letterari più antichi, giunti fino a noi, sono databili verso la fine del III millennio a.C., circa 1000 anni dopo l’invenzione tecnica della scrittura. Nella storia della cultura occidentale, l’invenzione dell’alfabeto greco, ripreso dalla lingua fenicia, permise di trasferire su un supporto fisico la tradizione orale dei versi di Iliade e Odissea, per molto tempo recitati e non letti. Infatti, era compito di aedi e rapsodi, durante feste religiose, celebrazioni pubbliche o simposi, declamare le gesta degli eroi del passato. È provato che già durante la tirannia di Pisistrato, ad Atene, durante il VI secolo a.C. nella grande biblioteca ateniese fossero presenti dei libri ordinati di Omero e che i poemi di Iliade e Odissea venissero utilizzati per l’insegnamento degli allievi nelle scuole. Secondo lo storico e filosofo Ivan Illich: “Il passaggio dalla tradizione orale a quella scritta segna una frattura epistemica, infatti, la scrittura introduce un nuovo stile cognitivo indicato come pensiero letterario (o alfabetico), il quale è un "pensiero argomentativo", causale, che procede per analisi e sintesi e lavora non su oggetti concreti ma su concetti”. Un secondo importante passaggio storico avviene grazie all’invenzione dei caratteri mobili per la stampa dovuta a Gutenberg. Infatti, nei molti secoli successivi ai fasti della civiltà ateniese, la tradizione orale rimarrà comunque fondamentale per la trasmissione della conoscenza, in quanto pochi erano in grado di leggere mentre i testi scritti erano pochi, costosi da produrre e la cultura e la capacità di leggere e scrivere erano prevalentemente relegate ai chierici: non a caso il recupero e la trasmissione fino ai giorni nostri di molti testi dell’antichità sono stati possibili solo grazie all’instancabile lavoro dei monaci amanuensi in epoca medioevale. Fino a circa il XIII secolo la lettura rappresentava un evento pubblico e molto meno individuale rispetto a come lo conosciamo oggi in quanto era affidata a qualcuno che leggeva a un pubblico fatto da dame e cavalieri, spesso nelle sale delle corti. La stessa produzione artistica medioevale (si pensi ai famosi affreschi giotteschi nella Basilica di Assisi) era volta a educare il popolo, non in grado di leggere o scrivere, attraverso il ruolo dell’immagine. Tutto questo cambia radicalmente nel 1455 con la pubblicazione della Bibbia da parte di Gutenberg, attraverso l’utilizzo di caratteri mobili che Johann aveva già sperimentato anni addietro, tra il 1436 e il 1440. Sembra che, nella prima edizione, furono stampate circa 180 copie, una tiratura straordinaria per quell’epoca. Un terzo passaggio storico si realizza con la nascita della cinematografia alla fine del XIX secolo.  Nel 1873 il fotografo inglese Eadweard Muybridge realizzò un primo filmato, della durata di qualche secondo, di un cavallo in corsa mettendo in sequenza una serie di 24 fotografie. Nel 1895 la prima proiezione in pubblico di un film da parte dei fratelli Lumiere segnò la nascita ufficiale del cinema i cui sviluppi sono oggi ben evidenti. L’invenzione del video è epocale in quanto permette di trasmettere la parola, la tradizione orale, senza utilizzare l’unica alternativa che per secoli era stata la scrittura. In particolare, l’esperienza unica dell’ascolto della parola si slega dal vincolo cronologico, dalla sua unicità rappresentativa e dal vincolo spaziale. Infatti, un’orazione (una rappresentazione teatrale e via dicendo) può essere riascoltata in qualsiasi momento senza un nuovo intervento da parte del soggetto narrante o attore, è esattamente uguale a se stessa (anche una poesia ripetuta 10 volte in maniera impeccabile da un attore avrebbe differenze nel tono della voce o nelle pause, ad esempio) e può essere ascoltata in qualsiasi luogo attraverso un mezzo di riproduzione (tv, sala cinematografica o computer) senza dover essere fisicamente presenti nel luogo della sua produzione. La trasmissione dei canali televisivi via etere e l’invenzione più recente di internet hanno permesso una diffusione di contenuti in maniera massiccia e capillare in tutto il mondo civilizzato, fornendo un accesso alla cultura da parte degli individui come mai prima nella storia. Potremmo dire che lo sviluppo delle reti di comunicazione, dai canali televisivi alla rete internet, rappresenta per i contenuti video ciò che l’invenzione di Gutenberg ha rappresentato per il libro. Oggi intravediamo un ulteriore passaggio epocale nella maniera in cui la conoscenza umana può essere trasmessa e nell’accessibilità o meno degli individui al sapere umano. Infatti, con lo sviluppo della realtà virtuale e dell’intelligenza artificiale, il processo di apprendimento e di trasferimento di cultura e sapere potrà diventare sempre più esperienza diretta dell’individuo e sempre meno mediata dal “medium” della parola, testo o video.In un futuro che è già realtà l’utilizzo di visori in 3D e tute sensoriali indossabili renderà possibile a ciascuno di noi l’esperienza diretta, sebbene virtuale, di una battaglia del passato, di un discorso di un condottiero, di una lezione di un filosofo, dandoci l’impressione di essere presenti nel momento in cui l’evento accade, come se lo vivessimo nella nostra vita reale. L’AI permetterà di dialogare “direttamente” con Pericle, Dante o Leonardo, facendoci spiegare direttamente dagli autori il significato delle loro opere o delle loro gesta. Alla tradizione orale, al libro, al video, si affiancherà quindi la trasmissione del sapere quale esperienza diretta, attraverso un viaggio nel tempo non fatto più solo di immaginazione personale leggendo un testo di un racconto storico, ad esempio, o della constatazione visiva guardando un video che risulta immutabile e con il quale non è possibile interagire, ma anche attraverso l’interazione con l’evento storico che si sta studiando o il fenomeno chimico-fisico che si sta osservando. Se volessimo azzardare una previsione di un futuro passaggio nella storia della capacità dell’uomo di apprendere e trasmettere conoscenza, potremmo immaginare che la conoscenza di una singola materia o fatto storico possa essere caricata direttamente nel cervello umano attraverso una connessione elettronica, similmente a come oggi carichiamo un software su un pc. E’ di questi giorni l’annuncio che Neuralink, la società di neurotecnologie fondata da Elon Musk, ha ricevuto l’autorizzazione a testare i suoi impianti celebrali direttamente sul cervello umano. Un primo passo che potrebbe aprire in futuro la strada a una connessione sempre più forte tra biologia umana e mondo digitale e robotico. Sono passati oltre 900 anni da quando Wiligelmo scolpì le storie della genesi che oggi possono essere ammirate sulla facciata del Duomo di Modena, eppure da quelle quattro lastre possiamo trarre degli spunti significativi per la nostra analisi. In primis, lo strumento della forma marmorea che assolve al ruolo educativo per il popolo analfabeta, una sorta di Biblia pauperum, oggi ha ceduto il passo a mezzi nuovi quali il video e l’esperienza di realtà virtuale potenziata dall’intelligenza artificiale. La scoperta del bene e del male se nella storia della genesi comporta la cacciata dal paradiso e la condanna al lavoro per l’uomo, nella realtà storica implica per l’uomo pericoli e continue domande etiche. La domanda centrale è: fino a che livello e con quale grado di capillarità è accettabile per la stessa evoluzione e sicurezza della società umana la diffusione di conoscenza tra gli individui? Se da un lato, infatti, la diffusione del sapere tra gli uomini ha prodotto e produce progresso nella storia umana, dall’altro il controllo del sapere ha un risvolto etico ma anche pratico di sicurezza sociale e di organizzazione politica. Infatti, il sapere può essere usato da un uomo contro un altro uomo, da una società o da un individuo contro un singolo o una collettività. Lo sviluppo della ricerca sul nucleare, se da un lato ha prodotto sviluppi nel campo della fisica e della produzione di energia, dall’altro ha dotato alcune comunità di armi in grado di annientare non solo altre comunità di uomini ma di compromettere la stessa esistenza della civiltà umana. L’accesso da parte di gruppi terroristici al dark web per il traffico di armi, d’informazioni privilegiate o rubate, la capacità con cui gli hacker possano entrare nei sistemi informatici di enti pubblici o aziende, sono solo altri esempi di come la pervasività e l’accesso al sapere rappresenti una grande risorsa per la civiltà ma allo stesso ponga problemi etici e politici sul suo controllo. Il pericolo, come rappresentato da Wiligelmo, è che Caino alzi allora la mano contro Abele, usando il suo sapere contro suo fratello. Con l’intelligenza artificiale potremmo spingerci anche oltre: un nuovo Adamo, creato dall’uomo in questo caso nella veste di creatore, che potrebbe disubbidire alla volontà del padre, mangiando il frutto proibito e rivoltandosi contro colui che lo ha creato. Fuor di metafora vale la pena ricordare quanto dichiarato, pochi giorni fa, da Eric Schmidt, ex CEO di Google, secondo il quale l’AI potrebbe arrivare a danneggiare o uccidere un gran numero di persone attraverso la scoperta di falle nei sistemi informatici e di nuovi tipi di biologia potenzialmente dannosi per gli uomini. Si unisce al coro di massima attenzione sulla nuova tecnologia anche Sam Altman, CEO di OpenAI, la società creatrice di Chat-gpt, che ha indicato, in base quanto riportato sul sito del Center for AI Safety, ossia l’organizzazione che si occupa di sicurezza dell’intelligenza artificiale, come: “Mitigare il rischio estinzione causato dall’AI dovrebbe essere una priorità globale, insieme ad altri rischi sociali  su vasta scala come le pandemie o la guerra nucleare”. Vale la pena ricordare che gli stessi algoritmi che muovono l’AI sono prodotti dall’uomo che, nella loro generazione, ha il compito morale ed etico di inserire dei meccanismi di salvaguardia nei confronti della collettività, ben consci che possano esistere altre comunità di individui pronti a modificare in senso meno etico e a proprio favore quegli stessi algoritmi creando AI pronte a danneggiare l’interesse di altre comunità, culture e popoli. In questo senso la regolamentazione sull’accessibilità alla conoscenza e l’uso etico o meno che di questa se ne vuol fare, non solo rappresentano temi fondamentali all’interno delle società degli umani ma lo saranno sempre di più nel rapporto tra umano e il nuovo Adamo rappresentato, in futuro, dalla società dell’AI e dei robot. In un mondo sempre più ipertecnologico sarà importante rimettere al centro dell’attenzione i valori dell’etica e dell’umanesimo.   P.S. Alla luce di queste tematiche è rilevante, che al fine di una corretta pianificazione finanziaria personale, vengano considerati, in collaborazione con il proprio consulente finanziario, anche attraverso un piano di accumulo, soluzioni di investimento relative alle tematiche della cybersecurity e dello sviluppo dell’ Artificial Intelligence.

Continua a leggere

LA RIVOLUZIONE SOCIALE, ECONOMICA E POLITICA DELL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE

Scritto il 13.04.2023

Chat GPT. C’è un mondo dietro questa parola ma, soprattutto, c’è un mondo che verrà che potenzialmente potrebbe essere molto diverso da quello a cui siamo abituati. Una vera rivoluzione copernicana. Il clamore suscitato dalle capacità dell’intelligenza artificiale dietro Chat GPT è ancora forte e le prime reazioni non sono mancate anche a livello politico, non a caso è stato vietato in Italia, anche se le motivazioni sono legate a motivi di sicurezza sui dati personali. Cos’è Chat GPT? Si tratta di un’interfaccia, un software se vogliamo, sviluppato dalla società Open AI, una start-up di sviluppo dell’intelligenza artificiale (già valutata circa 30 miliardi di dollari), capace di dialogare con persone in maniera simile ad una persona umana, scrivere testi su qualsiasi argomento in maniera assai efficace e professionale, superare brillantemente molti esami accademici. La sua versione più aggiornata, Chat GPT4 (GPT sta per generative pre-trained transformers), è in grado di riconoscere e gestire anche immagini e risulta più precisa, creativa e collaborativa rispetto alla versione precedente. La tecnologia si basa su modelli di linguaggio di ampie dimensioni (Large Language Model o LLM), un modello di linguaggio generativo pre-addestrato in cui algoritmi di deep-learning sono in grado di generare contenuti attingendo ad un’enorme quantità di dati quali enciclopedie, dizionari, testi on-line e via dicendo e soprattutto con la capacità di migliorarsi e ampliare le proprie conoscenze attraverso l’interazione con gli utenti. Nonostante presenti ancora molte lacune, è solo questione di tempo prima che diventi sempre più preciso e affidabile. Chat GPT è solo uno dei progetti di AI (Artificial Intelligence) a cui si sta lavorando nel mondo. Google, ad esempio, sta sviluppando una sua versione di intelligenza artificiale chiamata Bard. La direzione e la velocità di sviluppo e gli ambiti di applicazione di questa tecnologia avranno forti implicazioni sul campo lavorativo, sociale, e, in ultima istanza, politico. Una recentissima ricerca, pubblicata il 27 marzo scorso da ricercatori dell’università di Pennsylvania e della stessa OpenAI, dal titolo “An early look at the labor market impact potential of large language models”, indica che già oggi il 15% delle mansioni di ciascun lavoratore potrebbe essere portato a termine più velocemente e con la stessa qualità, una percentuale che potrebbe salire ad oltre il 50% una volta si sia completata l’integrazione dell’intelligenza artificiale nei software e nelle macchine industriali esistenti, andando ad impattare, in particolare, le professioni con i salari elevati. Non sorprende questa conclusione: se da un lato, infatti, la robotica, ovvero l’automazione di processi manuali, comporta la sostituzione del lavoro manuale ripetitivo con delle macchine, dall’altro, con una logica parallela, l’automazione intellettuale dell’ AI porterà ad un sostituzione di molti compiti di concetto. Mentre sono già in allarme alcune figure professionali, come i copywriter, in quanto facilmente sostituibili dalla nuova tecnologia, c’è anche chi guarda alla necessità di nuove figure professionali, con preparazione umanistica e psicologica, necessarie per “addestrare” meglio la nuova intelligenza artificiale a diventare sempre più umana e affidabile nelle risposte. Se uniamo queste considerazioni al fatto che si stanno sviluppando nel mondo i computer quantistici, molto più veloci di quelli attuali e talmente potenti che anche gli attuali modelli di criptografia (delle password ad esempio) dovranno essere rivisti, possiamo solo immaginare la potenza di calcolo a cui avrà accesso questa nuova tecnologia, in grado di far compiere passi da gigante soprattutto nel campo della fisica, della biologia, nella farmacologia e via dicendo. E’ chiaro che tale trasformazione richiederà anni ma la direzione sembra ben delineata. Agli uomini spetta però governare i cambiamenti che ciò comporterà, sia riguardo ai risvolti positivi che a quelli negativi. A mio parere, lo sviluppo combinato di robotica e intelligenza artificiale, in pratica non solo la replica delle capacità fisiche e intellettive dell’uomo ma allo stesso tempo anche un loro potenziamento, può rappresentare una rivoluzione copernicana, lo stravolgimento del modello storico della società umana fondato sul connubio di lavoro e fatica ben rappresentato in un celebre quadro di Van Gogh (a 170 anni dalla nascita dell’artista), “I mangiatori di patate”, la cui atmosfera cupa, l’assenza di quei colori brillanti e luminosi che hanno reso l’artista famoso e amato, la potenza espressiva degli sguardi affossati e rugosi, testimoniano la fatica e allo stesso tempo la dignità della civiltà contadina, un richiamo più ampio alla fatica esistenziale di tutta l’umanità. Se le macchine possono sempre più spesso e in maniera sempre più ampia e pervasiva sostituire il lavoro umano, l’uomo avrà necessità di lavorare sempre meno per produrre almeno il minimo indispensabile al proprio sostentamento e in prospettiva potrebbe anche non dover lavorare affatto. Utopia? In questi giorni si parla, anche in Italia, di riduzione della settimana lavorativa a 4 giorni, a parità di salario. Sperimentazioni si sono avute già all’estero dove il modello ha riscosso un certo successo. Anche in Italia alcune imprese lo stanno sperimentando. Da un punto di vista di teoria economica il ragionamento è molto semplice. La produttività non è altro che la quantità di output, ossia di produzione, che si riesce a generare in un determinato intervallo di tempo data una quantità definita di input produttivi, diciamo capitale e lavoro. Se grazie a qualcosa, chiamiamola tecnologia, riesco ad incrementare l’output con la stessa quantità di input o riesco a produrre lo stesso con meno fattori produttivi, ho aumentato la produttività. Se quindi lavorando 4 giorni, grazie al maggiore supporto di tecnologie informatiche o robotiche e un migliore bilanciamento con la vita privata, riesco a produrre quanto facevo in 5 giorni ovviamente ho lavorato meno tempo ma a parità di salario in quanto il valore finale del mio lavoro, misurato dal valore della produzione, non sarà stato modificato. Estendendo questo ragionamento al suo estremo, se aumento il fattore tecnologia potrei arrivare ad un livello dove l’input lavoro diventa assai piccolo o vicino a zero. Del resto lo abbiamo visto anche nella storia. In Italia, alla fine dell’800 l’orario di lavoro medio era di 16 ore giornaliere e solo una legge del 1899 permise di fissarlo a 12 con l'interdizione dal lavoro notturno per le donne e i ragazzi dai 13 ai 15 anni. Il regio decreto 692 del 1923 fissò l’orario di lavoro per tutte le categorie produttive a 8 ore giornaliere, per un massimo di 48 settimanali. Agli inizi degli anni 70 il massimale settimanale passò da 48 a 40 ore. In base alle ultime statistiche, attualmente in Italia si lavora mediamente 37 ore alla settimana (media UE a 38 ore). I paesi dove si lavora meno sono i Paesi Bassi (30 ore), Danimarca (33,6) e Germania (35), quelli dove si lavora di più sono Grecia (41,7), Bulgaria (40,4) e Polonia (40,3). Al di là delle situazioni specifiche dei singoli paesi, è bene evidente una correlazione tra sviluppo tecnologico delle società e riduzione dell’orario di lavoro (dati Openpolis . febbraio 2022). Le conseguenze di questo fenomeno storico inarrestabile, che potrebbe ora subire una forte accelerazione nella sua direzione di fondo grazie agli sviluppi dell’AI, spaziano dal sociale al riequilibrio dell’ordine geo-politico mondiale. La disponibilità di maggiore tempo libero da parte degli individui favorisce le attività economiche di quei settori che si occupano appunto del “tempo libero”. Secondo i dati di Growth Capital, nel 2020 il settore del gaming ha generato 175 miliardi di dollari di ricavi, con circa 2,7 miliardi di gamer attivi in tutto il mondo, superando industrie quali cinema, musica, televisione. Solo in Italia il volume di affari del 2021 è stato di 2,2 miliardi di euro, con una crescita del 3% rispetto all’anno precedente. La stessa Unione Europea, conscia dell’importanza crescente del settore sia dal punto di vista lavorativo che da quello di vista culturale in competizione con USA, Giappone e ultimamente Cina, ha instituito l’Osservatorio europeo per i videogame, con lo scopo di incrementare il numero di videogiochi prodotti dal settore europeo che, attualmente, occupa circa 100mila addetti e che vede la Polonia come paese leader, con oltre 60 corsi di laurea legati allo sviluppo di videogiochi e numerose aziende del settore quotate presso la borsa di Varsavia. Se prendiamo il settore dei musei, monumenti e aree archeologiche statali ad esempio, dopo il crollo dovuto alla pandemia, il 2022 è terminato con numeri importanti, ormai vicini al 2019 (anno migliore di sempre per affluenza ed incassi). Qualche esempio: gli Uffizi di Firenze hanno registrato 4 milioni di visitatori nel 2022, con un record di incassi di 35 milioni di euro, poco sopra il record del 2019; il Museo Egizio a Torino quasi 900mila visitatori contro gli 850mila del 2019. Allargando lo sguardo a livello geopolitico un nome su tutti, Taiwan. La piccola isola nel Pacifico rappresenta l’emblema della battaglia che a livello mondiale si sta combattendo per la supremazia tecnologica, che, in ultima istanza, significa anche supremazia economica, militare e quindi politica. Taiwan, stato indipendente che la Cina vorrebbe “riannettere” all’interno del suo territorio, ha la leadership mondiale riguardo all’industria dei semiconduttori: la repubblica taiwanese ha il 65% del mercato della fabbricazione e ha una leadership nel segmento dell’assemblaggio, imballaggio e testing, con oltre il 50% di quota di mercato mondiale. Il suo campione nazionale, TSMC, è il primo produttore di chip al mondo.L’importanza attribuita all’industria dei microchip, che sono ovunque, dai pc ai cellulari, dalle auto ai sistemi militari, ha portato gli USA ad approvare una legge specifica, il Chips Act, che ha un valore di circa 280 miliardi di dollari e include 53 miliardi in aiuti industriali e che da un lato cerca di incentivare sempre più una propria produzione nazionale, dall’ altro di arginare lo sviluppo cinese nel settore. Gli Usa, attraverso moral suasion e vincoli legali e commerciali, stanno cercando di impedire l’acquisizione delle più moderne tecnologie da parte dei cinesi che, sul segmento più avanzato dei microchip, hanno circa 6-7 anni di ritardo rispetto a Taiwan. Ad esempio, la società olandese ASML, unica azienda al mondo in grado di produrre le stampanti necessarie per produrre i microchip di ultima generazione, ha accettato, su pressioni americane e in accordo con il governo dei Paesi Bassi, di limitare l’esportazione di certi modelli verso la Cina. Da un punto di vista più strettamente politico Taiwan, oltre ad essere una democrazia, rappresenta anche il simbolo di come uno stato di etnia cinese possa prosperare senza il modello comunista (situazione simile all’Ucraina dove permettere ai “fratelli” russofoni ucraini di prosperare in un regime democratico significherebbe ammettere indirettamente anche il fallimento del modello autocrate russo in patria, che, nonostante la sfavillante ricchezza degli oligarchi e della borghesia di Mosca e San Pietroburgo, ancora lascia la maggior parte della sua popolazione in condizioni socio-economiche poco entusiasmanti, con uno stipendio medio mensile di 700 euro e una speranza di vita a 73 anni, contro una media OCSE di 81, senza parlare di censura informativa e restrizioni delle libertà personali). Infine, guardando un po’ più avanti, lo sviluppo di robotica ed intelligenza artificiale potrebbe influenzare la visione socio-politica con cui affrontare il fenomeno dei flussi migratori. Negli ultimi mesi è caldo il tema politico del calo demografico da un lato e dall’altro della necessità di accogliere i migranti che continuano ad arrivare sulle nostre coste, non solo dall’Africa, ma da diversi paesi dell’oriente. Lasciando da parte considerazioni di carattere morale e/o religioso, l’incremento della forza lavoro, possibilmente qualificata e gestita tramite flussi regolari, potrebbe supportare diversi settori economici che richiedono manodopera e aiutare il problema del calo della natalità, fenomeno tipico dei paesi maggiormente sviluppati ma particolarmente evidente proprio in Italia. La potenziale prospettiva, come detto più nel lungo termine, di poter rimpiazzare gran parte del lavoro manuale e non solo con macchine e intelligenza artificiale, potrebbe diminuire la necessità di migranti. I robot e l’intelligenza artificiale diventare i nuovi schiavi del futuro, creando ricchezza cosi come in passato è stato per i grandi imperi, da quello romano alla stessa società americana prosperata anche grazie alla tratta degli schiavi dall’Africa. L’accesso o meno alle migliori tecnologie sarebbe l’equivalente del possesso o meno degli schiavi più forti, in grado quindi di creare maggior ricchezza per i propri possessori. In un sistema in cui, tuttavia, anche tramite strumenti di redistribuzione del reddito (un salario minimo universale), i cittadini godono di maggiore tempo libero e maggiore serenità economica, è assai probabile che anche il tasso di natalità si alzi significativamente, andando a risolvere parzialmente, se non in toto, in problema demografico. In quest’ottica, un simile modello di sviluppo economico potrebbe essere visto favorevolmente dai governi con visione sovranista e con retoriche e programmi incentrati alla difesa dell’identità e della cultura nazionale. Insomma, come abbiamo visto, Chat GPT non è solo una chat automatica, ma solo il segnale di  un mondo nuovo e potenzialmente molto diverso che spetta a noi plasmare nella maniera migliore.

Continua a leggere

COME INVESTIRE NEL 2023

Scritto il 09.01.2023

Prima di presentare degli spunti d’investimento per il 2023 vediamo come sono andate le indicazioni fornite per il 2022 (articolo del 20 dicembre 2021). Si consigliava: più Europa e meno US, meno titoli growth e più titoli value, preferenza per società legate al cambiamento climatico, investire sul settore energia e finanziario, attendere correzioni importanti sul mercato azionario, attenzione ai rischi di inflazione più alta delle previsioni, ai rischi di tensioni geopolitiche tra USA, Cina e Russia e alle problematiche del settore immobiliare cinese. A consuntivo: l’Europa (-10%) ha fatto meglio di USA (-20%), i titoli value hanno fatto meglio dei growth (Nasdaq -33% vs -9% del Dow Jones sul mercato US e a livello globale (indici in USD) MSCI World Value -6% vs -29% di MSCI World Growth), un fondo come il Nordea Climate Change ha fatto meglio dell’indice azionario mondiale, il settore energetico è stato il migliore del 2022  (+48% MSCI World Energy) mentre i finanziari, anche se negativi, hanno sovraperformato l’indice mondiale (-10% MSCI World Financials vs -18% di MSCI World), il mercato ha registrato importanti correzioni, soprattutto riguardo ai titoli tecnologici, l’inflazione è esplosa raggiungendo il 10% in Europa, abbiamo avuto lo scoppio della guerra in Ucraina e forti tensioni su Taiwan culminate con la visita di Nancy Pelosi sull’isola, mentre a fine novembre è stato annunciato un piano di salvataggio da 200 mld di dollari per sostenere il settore immobiliare cinese ancora in serie difficoltà. Cosa aspettarci nel 2023? In estrema sintesi potremmo dire: 1) Recessione; 2) Inflazione persistente ma in discesa dai massimi; 3) Debolezza e volatilità sul mercato azionario; 4) Interessanti opportunità per le obbligazioni. Analizziamo con ordine ciascun tema. Recessione Dopo le previsioni di investimento largamente fallaci dello scorso anno da parte delle principali case di investimento di Wall Street, quest’anno sembra esserci un ampio consenso sulla recessione in arrivo, un effetto collaterale quasi inevitabile della guerra contro l’inflazione combattuta dalle banche centrali con continui e corposi rialzi dei tassi di interesse. Sull’entità e la severità della recessione, tuttavia, ci sono più distinguo. Mentre il consenso parla di una recessione leggera, un broker come Barclays ritiene che la crescita mondiale arrivi ad appena l’1,7%, una delle più deboli degli ultimi 40 anni, con un tasso di disoccupazione negli USA che raggiungerà quasi il 5% entro 12 mesi (dal 3,5% attuale), Fidelity parla di hard landing mentre Ned Davis vede la crescita mondiale al 2,4% con il 65% di possibilità di una recessione profonda. Axa Investment Managers è più negativa del consenso con una previsione di -0,2% in US nel 2023 e 0,9% nel 2024. La forte inversione della curva dei rendimenti tra le scadenze a 2 e 10 anni, tuttavia, un segnale abbastanza affidabile di una recessione nei 6-12 mesi seguenti, segnala una recessione profonda e un sondaggio di KPMG indica che mentre il 91% dei CEO si attende una recessione nei prossimi 12 mesi, solo il 34% ritiene che sarà di breve durata e di leggera entità. Inflazione L’inflazione sembra aver raggiunto il suo picco nel 2022 ma rimarrà ampiamente sopra il target del 2% delle banche centrali. Secondo Algebris negli USA si avrà un 5% di inflazione entro luglio (3% quella core) e un 7% in Europa (5% la core). Nonostante questo rallentamento, la politica monetaria rimarrà restrittiva con rischi di ulteriori rialzi dei tassi in Europa e Regno Unito. Anche secondo Goldman Sachs la core inflation negli USA arriverà a 3% per la fine del 2023. Pictet parla di inflazione globale in forte discesa fino ad un 3,5% nel 2023, mentre DWS la vede ancora alta, al 6% in Europa e oltre il 4% in US. E’ indubbio che il calo dei costi del gas e del petrolio, qualora questi trend non venissero invertiti nuovamente, favorirà molto il calo dell’inflazione in Europa ma, seppure in discesa dai massimi, difficilmente avremo, a mio parere, un’inflazione europea e italiana sotto il 4-5% nel 2023, a meno di eventi imprevedibili (ad esempio un crash del mercato immobiliare in Cina e una contrazione del Pil cinese, un vero cigno nero insomma). Mercato azionario Con una recessione in arrivo, le attese sono per nuovi minimi del mercato azionario: mentre la discesa nel 2022 era legata alla contrazione dei multipli e delle valutazioni, nel 2022 sarà la revisione al ribasso degli utili a portare nuovi cali sull’azionario. Di questo avviso sono BNP Paribas e Pimco, in linea con il consenso generale di una revisione degli utili, con Morgan Stanley che prevede, tra alti e bassi un S&P500 a circa 3900 punti a fine 2023, vicino quindi ai valori attuali, e Barclays che predilige le obbligazioni e il cash alle azioni. Deutsche Bank vede un indice intorno ai 3200 punti nel terzo trimestre per poi tornare a 4500 a fine 2023. L’idea di fondo è che la debolezza ci sarà soprattutto nella prima fase del 2023, in previsione di recessione, mentre un recupero potrebbe esserci nella seconda parte del 2023, in quanto l’S&P500 raggiunge solitamente il suo minimo 6 mesi prima della fine di una recessione. In sintesi, a meno di sorprese significative, le attese generali sono per nuovi minimi nei prossimi 6-9 mesi. Obbligazionario Il 2023 sembra essere l’anno dell’obbligazionario. La fine dell’anomalia storica dei tassi zero, se da un lato ha portato grossi grattacapi per i detentori di obbligazioni a lunga scadenza, dall’altro ha creato interessanti opportunità per chi decide di investire adesso in questa asset class, con rendimenti interessanti che non si vedevano da anni. Pimco, uno dei maggiori gestori obbligazionari mondiali, non si aspetta un rapido cambio di direzione politica monetaria con tassi che inizierebbero a scendere solo a fine 2023 (favorendo quindi il rialzo dei prezzi delle obbligazioni) ma, anche senza questa aspettativa, ritiene che i rendimenti siano già abbastanza interessanti per generare ottime cedole mentre la stabilizzazione dei tassi potrebbe attrarre ulteriori investitori non più spaventati da rischi di perdite in conto capitale. Anche i modelli di Vanguard prevedono rendimenti per le obbligazioni americane del 4-5% annuo per la prossima decade, contro 1,4-2,4% di solo un anno fa. Uno studio di MFS sulle obbligazioni ci indica alcune importanti motivazioni per preferire le obbligazioni: 1) Rendimenti in salita che non si vedevano da un decennio con rinnovata capacità di generare un reddito interessante, in netto contrasto alla situazione del 2020 con il 30% del debito globale caratterizzato da rendimenti negativi; 2) L’obbligazionario torna di nuovo a rappresentare un’alternativa interessante rispetto alle azioni con un differenziale di rendimento tra cedole obbligazionarie e dividendi azionari di oltre il 2%; 3) Le obbligazioni riconquistato lo storico ruolo di riduzione della volatilità del portafoglio, ora che ci si è allontanati significativamente dai tassi zero che rappresentavano una bomba a orologeria (vedi mio articolo del 2020 sui rischi di un portafoglio 60/40) esplosa poi nel 2021. Anche la statistica è a favore sulla possibilità di guadagni in conto capitale dal rialzo dei prezzi delle obbligazioni nel 2023. Infatti, in 100 anni non ci sono mai stati più di 2 anni di fila con performance degli obbligazionari negative: dopo i due anni negativi del 1955-56 si è registrato un 6,8% nel 1957 e dopo il biennio negativo del 1958-59 un 11,6% nel 1960. Dopo il -4,4% del 2021 e il crollo storico del -12% dello scorso anno cosa accadrà nel 2023? Non possono mancare, infine, alcuni spunti di autorevoli gestori di hedge fund quali John Hussman e Michael Burry. Michael Burry, famoso per avere previsto la crisi dei subprime, è alquanto negativo sul mercato azionario. A suo parere abbiamo 3 fattori di rischio. Il primo è legato a una seconda ondata d’inflazione dopo la prima che, come abbiamo visto, ha già raggiunto il suo picco (negli anni ‘40 e ‘70, a una prima ondata inflattiva ne seguì una seconda). A suo parere, dopo l’inizio della recessione, la Fed sarà costretta a tagliare i tassi provocando una seconda ondata inflattiva. Il secondo fattore di rischio è legato al livello di disoccupazione a livelli storicamente bassi e quindi destinato a salire. L’ultimo fattore è legato al livello di leverage del sistema e al rischio di margin call, ossia il rientro parziale o totale da prestiti che sono stati messi in piedi in una situazione di tassi estremamente favorevole e aventi a garanzia asset finanziari che tendono a perdere valore. Se non viene reintegrato un valore congruo della garanzia con aggiunta di liquidità il creditore è costretto a chiudere la posizione vendendo gli asset in garanzia e provocando un ulteriore ribasso delle sue quotazioni, avviando un circolo vizioso al ribasso che può coinvolgere altri operatori. Michael Hussman, come correttamente evidenziato un anno fa, considera le valutazioni raggiunte a inizio 2021 come anche più estreme rispetto a quelle del 2007-2008. A suo parere, nonostante l’importante correzione già verificatasi sul mercato azionario, nei bear market, ossia nei mercati in discesa, è probabile aspettarsi una sequenza di onde di rimbalzo e nuovi minimi, con una correzione del 20% circa (come quella del 2022) che avviene nel primo anno, seguita da successive ondate ribassiste negli anni successivi: questo è quanto accaduto nei tre peggiori crolli del mercato azionario del dopoguerra: 1973-74, 2000-2002, 2007-2009. In base ai suoi modelli, le attuali quotazioni dell’S&P500 implicano rendimenti medi negativi per i prossimi 12 anni mentre, per ottenere quel 10% di rendimento medio considerato “normale” (storicamente è questo il rendimento medio del mercato americano), l’indice americano dovrebbe quotare 1600 punti, che si confronta con un target medio per il 2023 delle case di investimento di Wall Street di oltre 4200. Questo non implica che il gestore si attenda, necessariamente, una correzione del 60% dai livelli attuali ma sta indicare come le valutazioni attuali siano ancora estremamente elevate e che il 1600 rappresenti una potenziale soglia al ribasso oltre la quale sarebbe estremamente difficile scendere. Interessanti anche le sue considerazioni su un possibile inizio di taglio dei tassi: quando il tasso sui Fed funds è stato inferiore all'inflazione core, con un'inflazione core anche superiore al 2,5%, la Fed non ha mai iniziato un allentamento monetario a meno che la recessione non abbia spinto il tasso di disoccupazione almeno al 6%. Inoltre le peggiori perdite sul mercato tendono a seguire e non precedere un iniziale cambio di politica monetaria della Fed, in quanto tali inversioni di rotta tendono a verificarsi nel momento in cui qualcosa è andato storto. Infine, una sua analisi dell’agosto 2022 che confronta rendimenti obbligazionari e azionari attesi per i prossimi anni, supporta la tesi della preferenza per il mercato obbligazionario in questa fase: infatti, se si escludono i periodi che terminano con i picchi delle bolle, i rendimenti medi annuali dell’S&P500 nei prossimi 12 anni saranno probabilmente inferiori a quelli delle obbligazioni così come avvenne dopo lo scoppio delle bolle del 1929 e 2000. Potenziali rischi Tra i principali rischi rimangono l’andamento del conflitto in Ucraina e l’evoluzione della politica cinese. La Cina rappresenta un rischio, in particolare, sotto 3 aspetti: 1) Sul piano geopolitico in base alla tipologia di sostegno o meno che vorrà dare alla Russia nel conflitto in Ucraina e nel suo tentativo di ridisegnare l’ordine mondiale; 2) Sul piano sanitario nuove emergenze su possibili varianti di Covid potrebbero rallentare le attività globali ed esacerbare il periodo di recessione; 3) La riapertura della sua economia potrebbe favorire la crescita economica mondiale ma continuare a mantenere alta l’inflazione e costringere quindi le banche centrali a mantenere più a lungo tassi di interesse elevati. Conclusioni Preferenza per le obbligazioni inflation-linked soprattutto con scadenze a 2-3 anni e continuo accumulo sui ribassi di obbligazioni a più lunga scadenza (10-15 anni) in attesa di un inizio di taglio dei tassi tra fine 2023 e 2024. Interessante anche una piccola esposizione al debito dei mercati emergenti in previsione di un dollaro che dovrebbe aver perso la sua forza (anche se rimane sempre il rischio di un fly-to-quality in caso di shock estremi nel sistema). Probabili nuovi minimi e rally azionari di ricopertura di posizioni short per cui accumulo azionario su ribassi e vendita parziale (o totale se si ha un’ottica più di breve periodo) delle posizioni sui rialzi anche importanti che dovremmo vedere.  

Continua a leggere

Condividi