Bruno Mazzola - AD MoneyController Srl

Bruno Mazzola

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In MoneyController la consulenza dei promotori finanziari è gratuita e la ottieni con un clik

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  • Consulenza finanziaria
Scritto il 22.01.2016

Tutte le persone che accedono al nostro sito web, possono contattare un consulente promotore che ha pubblicato la sua pagina (stand virtuale) in MoneyController, per chiedergli un consiglio, una consulenza. In più, per gli utenti registrati al nostro sito è possibile anche inviargli, con un clik, i portafogli salvati in MoneyController e chiedere loro una consulenza. E’ sicuramente un modo comodo, veloce e sicuro, per ricevere le informazioni che cerchi per gestire al meglio il tuo portafoglio. La richiesta ad un promotore da parte di un utente non comporta nessun obbligo per entrambe le parti. Scopri come fare: http://www.moneycontroller.it/come-condividere

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Azioni e bond: così funziona la Mifid Il calcolo del rischio e i paradossi

Scritto il 12.01.2016

Corriere della Serra di Pieremilio Gadda e Giuditta Marvelli I risparmiatori delle quattro banche "salvate" hanno comprato titoli inadatti a loro, ma a volte c'è chi vorrebbe investite con cognizione di causa e non può. Ecco perché. Le storie dei risparmiatori vittime dei bond subordinati andranno valutate una ad una. Per stabilire chi si è preso un rischio sapendo che cosa stava facendo e chi invece no. E se davvero le banche hanno mistificato la realtà, non spiegando la pericolosità insita negli strumenti che vendevano. Siamo di fronte — se questo verrà accertato — ad una palese violazione delle regole. Quando invece nella normalità (che fa meno notizia) le cose funzionano, a qualcuno capita anche di scontrarsi frontalmente con i meccanismi che regolano la distribuzione dei prodotti finanziari in Italia e in tutta Europa: tu vorresti uno strumento e io banca che rispetto le procedure non posso vendertelo. Perché? La parola chiave è Mifid, ovvero Markets in financial instruments directive, la direttiva europea in vigore dal 2007, un’epoca geologica fa se si parla di vicende economiche. In base a questa norma, chiunque abbia un deposito titoli in banca o in posta viene intervistato, con un questionario, che aiuta a stabilire quanto è ampia la sua conoscenza dei mercati e degli strumenti. E se un titolo o un prodotto possono entrare nel suo portafoglio. Tutela sacrosanta o eccesso di burocrazia? In un mercato sempre più grande e complesso, dove è difficile ottenere rendimenti soddisfacenti (oggi i tassi a breve sono negativi, un Btp a dieci anni offre l’1,6%) è giusto fare qualche riflessione sui meccanismi di salvaguardia e di informazione dei singoli risparmiatori che qualche anno fa non esistevano, ma anche sui paradossi insiti nel difficile esercizio della misurazione del rischio. Personale e del sistema. Qualche storia vera Accanto agli azionisti respinti delle Poste, saliti alla ribalta alla fine di ottobre perché il loro profilo non consentiva l’acquisto del lotto minimo della privatizzazione destinata anche ai piccoli investitori, c’è il consulente finanziario che ha dovuto rinunciare a un investimento perché un anno fa ha risposto al questionario in modo troppo prudente: oggi vorrebbe alzare l’asticella del rischio, ma la sua banca blocca l’operazione perché, per aggiornare il profilo in chiave più aggressiva, serve un nuovo test e la procedura interna prescrive un intervallo di due anni tra un questionario e l’altro. O ancora: Btp people con il portafoglio pieno di titoli di Stato a cui l’algoritmo della banca ha vietato acquisti azionari perché il rating del nostro debito pubblico non è da primi della classe e il rischio complessivo del portafoglio sarebbe finito fuori orbita. E per finire qualcuno, animato delle migliori intenzioni, ha rischiato la crisi di identità: dopo aver compilato tre o quattro questionari Mifid di altrettanti operatori finanziari è risultato portatore di diversi profili di rischio. Quale tipo di risparmiatore abita davvero in me? Non si tratta di casi isolati o di qualche investitore un po’ esaurito. Il punto è che ogni intermediario può applicare la normativa a suo modo, nell’ambito delle linee guida stabilite dalla direttiva (che vale per centinaia di milioni di cittadini europei) e previo “ok” della Consob, l’autorità italiana che vigila sui mercati. Le storie dei risparmiatori vittime dei bond subordinati andranno valutate una ad una. Per stabilire chi si è preso un rischio sapendo che cosa stava facendo e chi invece no. E se davvero le banche hanno mistificato la realtà, non spiegando la pericolosità insita negli strumenti che vendevano. Siamo di fronte — se questo verrà accertato — ad una palese violazione delle regole. Quando invece nella normalità (che fa meno notizia) le cose funzionano, a qualcuno capita anche di scontrarsi frontalmente con i meccanismi che regolano la distribuzione dei prodotti finanziari in Italia e in tutta Europa: tu vorresti uno strumento e io banca che rispetto le procedure non posso vendertelo. Perché? La parola chiave è Mifid, ovvero Markets in financial instruments directive, la direttiva europea in vigore dal 2007, un’epoca geologica fa se si parla di vicende economiche. In base a questa norma, chiunque abbia un deposito titoli in banca o in posta viene intervistato, con un questionario, che aiuta a stabilire quanto è ampia la sua conoscenza dei mercati e degli strumenti. E se un titolo o un prodotto possono entrare nel suo portafoglio. Tutela sacrosanta o eccesso di burocrazia? In un mercato sempre più grande e complesso, dove è difficile ottenere rendimenti soddisfacenti (oggi i tassi a breve sono negativi, un Btp a dieci anni offre l’1,6%) è giusto fare qualche riflessione sui meccanismi di salvaguardia e di informazione dei singoli risparmiatori che qualche anno fa non esistevano, ma anche sui paradossi insiti nel difficile esercizio della misurazione del rischio. Personale e del sistema. Qualche storia vera Accanto agli azionisti respinti delle Poste, saliti alla ribalta alla fine di ottobre perché il loro profilo non consentiva l’acquisto del lotto minimo della privatizzazione destinata anche ai piccoli investitori, c’è il consulente finanziario che ha dovuto rinunciare a un investimento perché un anno fa ha risposto al questionario in modo troppo prudente: oggi vorrebbe alzare l’asticella del rischio, ma la sua banca blocca l’operazione perché, per aggiornare il profilo in chiave più aggressiva, serve un nuovo test e la procedura interna prescrive un intervallo di due anni tra un questionario e l’altro. O ancora: Btp people con il portafoglio pieno di titoli di Stato a cui l’algoritmo della banca ha vietato acquisti azionari perché il rating del nostro debito pubblico non è da primi della classe e il rischio complessivo del portafoglio sarebbe finito fuori orbita. E per finire qualcuno, animato delle migliori intenzioni, ha rischiato la crisi di identità: dopo aver compilato tre o quattro questionari Mifid di altrettanti operatori finanziari è risultato portatore di diversi profili di rischio. Quale tipo di risparmiatore abita davvero in me? Non si tratta di casi isolati o di qualche investitore un po’ esaurito. Il punto è che ogni intermediario può applicare la normativa a suo modo, nell’ambito delle linee guida stabilite dalla direttiva (che vale per centinaia di milioni di cittadini europei) e previo “ok” della Consob, l’autorità italiana che vigila sui mercati. Regole La Mifid non ha definito con precisione i singoli profili di rischio, né gli strumenti finanziari accessibili a ciascuno di essi. Non dà indicazioni sulla frequenza con cui il questionario va aggiornato. E del resto, la profondità dell’intervista e le modalità operative variano in base al rapporto che lega il cliente all’intermediario. Se c’è un contratto di consulenza o una gestione di portafoglio, la banca è tenuta a effettuare una valutazione di adeguatezza che prende in esame gli obiettivi d’investimento del cliente, la sua situazione finanziaria complessiva, il livello di rischio che è disposto ad assumere, le sue conoscenze ed esperienze in materia d’investimenti. Per un servizio standard di semplice collocamento ed esecuzione di ordini per conto dei clienti, l’intermediario si limita ad effettuare una valutazione di appropriatezza: attraverso un questionario più semplice, verifica se l’investitore conosce un certo strumento, ne comprende il funzionamento e i rischi. Con un servizio di mera esecuzione degli ordini (execution only) su strumenti finanziari non complessi, per esempio azioni e obbligazioni e fondi armonizzati, la banca non è neppure tenuta (per ora) a fate alcun test. Ma le cose in questo campo si evolvono continuamente. Dal gennaio 2017 gli Stati dell’Eurozona, per esempio, dovranno recepire la versione due della Mifid, che mette l’accento sulla trasparenza in riferimento al costo del servizio di consulenza offerto al cliente. Semaforo rosso Cosa succede quando un ordine d’acquisto fa scattare il semaforo rosso? Dipende. Se non c’è contratto di consulenza, l’intermediario ha solo l’obbligo di avvertire il cliente che l’operazione non è appropriata, in base al suo profilo di rischio. Lo dice l’art. 42 del Regolamento Intermediari Consob al comma 3. In caso contrario, invece, per esempio in una gestione di portafoglio, la banca non può eseguire la compravendita. C’è però una scappatoia: l’operazione può essere fatta al di fuori del contratto di consulenza, nell’ambito di un rapporto di mera esecuzione ordini. Qualche intermediario ha fissato un importo massimo investibile fuori dal recinto Mifid. Altri sono irremovibili e non autorizzano l’acquisto. Soprattutto se può esserci un conflitto di interessi. Cioè, per esempio, se sono andato con un profilo di rischio inadeguato alle Poste a chiedere di comprare le azioni delle Poste. O se chiedo in banca di acquistare un fondo della casa che stona con la mia capacità finanziaria certificata a suo tempo dall’intervista. L’applicazione intelligente e quella rigida «Le regole sono buone, nella misura in cui sono scritte con l’obiettivo di tutelare il risparmiatore. Il problema nasce quando vengono applicate in modo errato o sciocco — spiega Massimo Scolari, presidente di Ascosim — . Questo si verifica, per esempio, se l’intermediario adotta un approccio eccessivamente rigido, da burocrate, finendo talvolta per penalizzare il suo cliente». Il livello di rischio, ricorda Scolari, non dipende solo dal possesso di un certo titolo, ma anche dal suo peso relativo all’interno di un portafoglio e dal grado di diversificazione. «Purtroppo accade anche il contrario — ricorda il presidente di Ascosim —. Ci sono intermediari che compiono una revisione generalizzata dei questionari Mifid in concomitanza con il lancio di una nuova campagna commerciale, allo scopo di rendere il profilo dei propri clienti, con qualche forzatura, adeguato al prodotto che vogliono vendere. Le autorità sono intervenute a più riprese per sanzionare comportamenti come questo». Nel caso dei prestiti subordinati al centro della bufera è possibile che sia accaduto qualcosa di simile. O di ancora più grave. Come si cambia Dietro a una nuova intervista non c’è sempre l’imbroglio. Anzi. Negli ultimi mesi, per esempio, diverse banche italiane hanno completato una revisione dei questionari Mifid per adeguarli ai requisiti più specifici richiesti dalle linee guida emanate da Esma (la Consob europea), con l’intento di fotografare meglio il cliente, in base alla sua formazione personale, professionale e alla sua situazione patrimoniale complessiva. Ma cosa succede se in base al nuovo test, il portafoglio non è più adeguato? Non c’è una regola che impone alla banca di ripristinare in tempi stretti la coerenza tra asset allocation e profilo di rischio. «Ogni successiva raccomandazione, però, dovrà necessariamente tenerne conto », ricorda Marcello Ferrara, analista di Consultique sim. Supponiamo che un cliente abbia un portafoglio bilanciato, suddiviso a metà tra azioni e obbligazioni. Ad un certo punto, per ipotesi, la sua propensione al rischio cala e viene fotografata dal nuovo questionario. «A questo punto — spiega l’analista — l’intermediario non potrà limitarsi, per esempio, a proporre la sostituzione di un Bot in scadenza con un titolo di Stato di nuova emissione; dovrà integrare questo suggerimento con una serie di raccomandazioni necessarie a ridurre il livello di rischio del portafoglio complessivo, ad esempio attraverso la riduzione della componente azionaria».

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Azioni europee, chi rende più del 4%

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  • Mercati finanziari / economia
Scritto il 05.01.2016

Ester Corvi Milano Finanza Ecco i titoli, selezionati dagli analisti di Société Générale con il rating buy (comprare), che a loro parere saranno generosi con gli azionisti, visti gli elevati livelli delle cedole stimati per il 2016. 1) Royal Dutch Shell. Il dividend yield stimato per il 2016 della compagnia petrolifera che capitalizza 52 miliardi di euro è l'8%. L’acquisizione di Bg è un’opportunità per rivedere il portafoglio e uscire dai business meno redditizi. Il target price è 1.800 pence. Il piano di ristrutturazione dovrebbe portare sig nificativi miglioramenti. Ha inoltre qualità difensive, come la solidità del bilancio e il quoziente di indebitamento più basso del settore. Il titolo tratta a 14 volte l’utile 2016. 2) Crédit Agricole. La banca francese, che capitalizza 29 miliardi di euro, ha un rendimento della cedola 2016 del 5,5%. I punti di forza sono il valore di libro (book value) costante, il profilo di crescita superiore alla media e l’esposizione alla ripresa dei mercati del credito dell’Eurozona. La posizione finanziaria è inoltre migliorata (il core tier 1 è 13,2%, fra i più alti in Europa). Il titolo, che merita un prezzo obiettivo di 12,5 euro, tratta 8 volte l’utile 2016 e 0,6 volte il valore di libro. 3) Aviva. Il dividend yield 2016 della compagnia assicurativa Uk(29 miliardi di euro di capitalizzazione) è stimato 5%. L'integrazione con Friends Life dovrebbe portare a sinergie di costo stimate in 225 milioni di sterline. Il giro d'affari è realizzato per il 60% in Uk, il 28% in Europa, il 5% in Canada, il 4% in Asia e il 3% in altri Paesi. Alle quotazioni attuali il titolo ha un p/e 2016 di 11,5, mentre il target price è 700 pence. 4) Intesa San Paolo. Il rendimento della cedola 2016 è stimato al 4,9%, mentre il prezzo obiettivo è 3,65 euro (total return a 12 mesi del 20%). Si distingue per la solidità del capitale, la qualità dell’attivo e la focalizzazione sull’asset management, che permette una notevole flessibilità operativa. Il titolo, che capitalizza 50 miliardi di euro, tratta a un p/e 2016 di 14, mentre il p/bv è 1,1. 5) Enel . La crescita dei dividendi della utility quotata a piazza Affari, che capitalizza 37 miliardi di euro, è fra le migliori del settore (dividend yield 2016 stimato 4,6%). Gli analisti si aspettano buone risultati dalla ristrutturazione delle attività in America Latina, mentre il management ha dichiarato di essere pronto a nuovi tagli dei costi. Il prezzo obiettivo del titolo, che ha un p/e di 12, è 4,8 euro. 6) Axa . Il colosso assicurativo francese, che capitalizza 62 miliardi di euro, offre un dividend yield del 4,5%. Il gap di valutazione rispetto ai competitor è del tutto ingiustificato, a causa dei timori legati agli Usa e alla solidità finanziaria, e destinato a colmarsi nei prossimi mesi, in vista di un target price di 29 euro. Le prospettive di crescita sono superiori alla media. Il titolo tratta 10 volte l’utile 2016 e 0,9 il valore di libro. 7) Sanofi . La compagnia farmaceutica ha un portafoglio prodotti molto attraente nella cardiologia (Praluent). Il potenziale asset swap con Boehringer Ingelheilm è coerente con la volontà di uscire dai business non core, con una semplificazione che gioverebbe alla visibilità e rinsalderebbe la fiducia degli investitori. Il rendimento della cedola è elevato (4%), mentre il prezzo obiettivo è 115 euro con rating buy, visto lo sconto dell’11% che presenta il titolo rispetto ai concorrenti di Eurolandia (p/e 13,8).

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Da: È tempo di Salva-risparmio

Scritto il 19.12.2015

19-12-2015 - MILANO FINANZA a pag. 47 di Stefania Ballauco “Ogni generalizzazione è pericolosa, inclusa questa”. Ed è proprio questo il senso del messaggio che Anasf sta sottolineando in questi giorni, esprimendo l’estraneità della categoria dei promotori finanziari alle conseguenze del provvedimento salva-banche che ha scosso l’intero sistema finanziario. “Siamo attratti da una negatività generale, dove la responsabilità di quanto accaduto ai risparmiatori clienti di CariChieti, CariFerrara, Banca Marche e Banca Etruria sono chiare e riguardano i conflitti di interesse nella distribuzione di prodotti finanziari, lacune gravi nella vigilanza, carenze endemiche in tema di educazione finanziaria”, ha commentato il presidente Anasf Maurizio Bufi. “ Ebbene, ci preme sottolineare che la nostra categoria è estranea ai fatti summenzionati”, ha ribadito Bufi. Se già in passato si è alcune volte parlato di crollo dei paradigmi della finanza oggi ancora di più assistiamo a uno sgretolamento della fiducia degli investitori e a una insicurezza che riguarda in modo generalizzato il settore finanziario. Il caso delle banche di territorio riporta alla luce temi sensibili, per tutti. Per i risparmiatori che hanno visto crollare il valore delle obbligazioni subordinate sottoscritte, di cui non conoscevano o sottovalutavano i rischi, per gli operatori qualificati del settore, come i promotori finanziari, che si sono visti ingiustamente travolgere nel mare magnum delle accuse rivolte alla finanza nel suo complesso. Un settore in cui si affaccia anche il chiacchierato bail-in, che entrerà in vigore il prossimo gennaio, che potrebbe comportare conseguenze per i correntisti sopra i 100 mila euro, che in caso di fallimento della banca saranno coinvolti, dopo azionisti e obbligazionisti a ripianare i conti. E che ormai desta preoccupazione a risparmiatori, anche non di grandi patrimoni, ormai spaventati dalle sorti generali del sistema bancario italiano. Oggi quindi, gli operatori finanziari si trovano a gestire una nuova importante fase di crisi di fiducia nei confronti del mondo finanziario, che questa volta riguarda il tradizionale settore delle banche, da sempre considerato dagli italiani porto sicuro per risparmi e liquidità. Se questa è la fotografia dello scenario attuale, alcune considerazioni però sono d’obbligo. “Che siano stati collocati ai risparmiatori prodotti del tutto inadeguati è un dato di fatto, questo è chiaro”, ha dichiarato Bufi. “Tuttavia mi preme sottolineare l’importanza della consulenza al risparmiatore da parte della nostra categoria, interessata proprio in questi tempi da un’innovazione normativa che ha lo scopo di censire e vigilare tutti quegli operatori presenti sul mercato che s’interfacciano con i risparmiatori. Gli stessi casi Parmalat e Cirio che ben ricordiamo non hanno visto protagonisti i promotori finanziari, perché l’approccio utilizzato è tipico della nostra professione è di tipo appunto consulenziale e volto alla pianificazione finanziaria di medio-lungo periodo con il risparmiatore improntata sulla diversificazione, oltre che sottoposto a precise regole di condotta, italiane ed europee”….

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Non si arresta la fuga dagli high-yield

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  • Mercati finanziari / economia
Scritto il 16.12.2015

SOLE 24 ORE a pag. 3 di Maximilian Cellino Il mercato ieri ha tirato un sospiro di sollievo, uscendo da una serie di rovesci proprio alla vigilia dell’appuntamento clou della Fed. Qualcuno però continua a non dormire sonni tranquilli, specialmente a New York: nonostante il rimbalzo sembra infatti non arrestarsi la fuga degli investitori dalle obbligazioni high-yeld, quelle ad alto rendimento che qualcuno chiama non a caso anche junk, cioè spazzatura. Il tracollo di questa classe d’investimento, soprattutto negli Stati uniti, non è una scoperta: il tonfo del prezzo del petrolio ha mandato in crisi molte aziende del settore, che vale il 16% dell’universo degli high-yield americani. I problemi si sono poi sparsi a macchia d’olio e gli spread (cioè il differenziale di rendimento dei bond rispetto a titoli “senza rischio” come i Treasury) sono volati fino ai livelli appena precedenti al crack-Lehman, mentre i prezzi sono crollati di conseguenza. Per ora negli Usa sembra prevalere la tendenza a spegnere sul nascere il focolaio e a sottolineare come la situazione attuale sia ben differente da quella di 8 anni fa perché gli interventi attuati a protezione del sistema finanziario (in primis la legge Dodd-Frank) sarebbe in grado di scongiurare l’effetto domino di allora. Ieri però l’organo di vigilanza che dipende dal dipartimento del tesoro Usa (Office of Financial Research) ha segnalato un rischio elevato e crescente fra le aziende non finanziarie e messo in guardia sul fatto che uno shock significativo tale da danneggiare ulteriormente la qualità del credito, potrebbe minacciare la stabilità finanziaria Usa. Se non è un avvertimento questo.

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Ma l`Europa vede Toro in Borsa nel 2016

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  • Mercati finanziari / economia
Scritto il 05.12.2015

SOLE 24 ORE PLUS a pag. 11 di Laura Magna I fondamentali restano mediocri, ma i listini trattano ancora a sconto in pole position Fca e le Popolari italiane. Sarà ancora Toro per l’Europa nel 2016. I gestori non hanno dubbi: nonostante i fondamentali non esaltanti, le azioni del Vecchio Continente non dovrebbero deludere: Le ragioni sono due. “La prima è che, dopo il generale crollo degli utili nel 2008/09 – dice Neil Dwane, global strategist di AllianzGI – mentre gli Usa hanno ripreso quota, in Europa i livelli di utile per azione (Eps, ernings per share) sono rimasti bassi, la metà rispetto ai primi. Ora ci sono le condizioni perché il gap si chiuda, grazie a riforme, tassi ultra-bassi, debolezza di valuta e petrolio e ripresa dell’economia domestica”. I multipli sono ancora attraenti. “L’Msci Europe tratta poco sopra 15 volte l’utile – continua Dwane – contro il 20 del P/e dell’indice globale e il 25 degli USA”. Da inizio anno sono confluiti verso i fondi azionari esposti in Eurozona circa 100 miliardi di dollari. “L’indice Markit Eurozone Manufacturing Purchasing Managers Index – afferma Mark A. Bogar, capo del team azionario globale di The Boston Company di Bny Mellon – indica bel tempo per il settore manifatturiero. Dalla fine del 2014 a oggi, l’indice si è attestato stabilmente al di sopra dei 50 punti, un livello che indica una fase di espansione”. Spazio per crescere ce n’è ancora tanto. “Gli utili previsti per il 2015 per l’indice Eurostoxx50 sono inferiori del 33% rispetto al 2007 – sostiene Alessandro Picchioni, presidente e direttore investimenti di WoodPecker Capital – Con prezzi stimati al 2016 tra 13,7 e 14,7 volte gli utili, i mercati dell’area euro risultano attraenti. L’unica incognita è l’atteggiamento della Fed sui tassi che, se risultasse ambiguo, potrebbe almeno nei primi tre mesi del 2016 portare i mercati a pensare che la politica monetaria sia più restrittiva di quanto già scontato dai prezzi. Le eventuali correzioni sarebbero opportunità di acquisto”. Come sfruttare queste opportunità è invece più complesso. “Questa non è un’epoca di rotazioni settoriali lineari e spesso i movimenti sono repentini e anti-persistenti – spiega Picchioni-. Le opportunità si trovano in settori specifici come quello del tempo libero, dove è in atto un trend destinato a durare nonostante gli attacchi terroristici, quello del packagin e quello della pubblicità. Siamo molto positivi su Fca, che insieme all’80% di Ferrari valutiamo 23-24 miliardi contro i 17 di Borsa, Carnival e Tui, che dovrebbero crescere ancora, da seguire poi la fusione Rexam-Ball, che potrebbe far emergere valore per gli azionisti, e Wpp, che è un leader di settore ottimamente diversificato”. Per Bny Mellon, invece, ci sono due trend da monitorare con attenzione. “il primo – dice ancora Bogar – è il settore dei media. Più nel dettaglio, le small cap europee attive nella pubblicità e nell’offerta di campagne televisive e outdoor. Tra i Paesi, ci concentriamo sulle società dei media in Germania, che resta ancora la locomotiva dell’Eurozona e offre opportunità di tipo value, e in Spagna, dove la ripresa ha appena iniziato ad accelerare e riserva investimenti interessanti in ottica growth”. Il secondo settore su cui la banca Usa ha un outlook positivo è quello delle Popolari italiane, al centro di una profonda rivoluzione. “E’ in atto un processo consolidamento tra gli istituti più deboli e le controparti più forti, volto sia a migliorare i singoli bilanci, sia a rinsaldare l’intero sistema – continua Bogar -. Inoltre, il Governo italiano si appresta a emanare nuove norme per alleviare il costo della cancellazione o della vendita delle sofferenze. Tali riforme potrebbero generare un afflusso di capitali stranieri da grandi investitori interessati al credito distressed, la cui liquidazione alleggerirebbe i bilanci”. Alla larga, infine, suggerisce il broker “dalle società europee esposte al mercato automobilistico in Cina”, visto in forte calo nei prossimi mesi.

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Spostarsi sulle azioni, malgrado tutto

Scritto il 28.11.2015

MILANO FINANZA a pag. 6 di Lucio Sironi In un momento in cui banche, società di gestione e tutti gli operatori del risparmio gestito paiono concordi nel convincere gli investitori che per sfuggire ala morta gora dei rendimenti azzerati non resta che diversificare in direzione dell’azionario, accade che molti di loro, che in passato avevano avviato questa esperienza rivolgendosi ai titoli di alcuni istituti di credito, perlopiù quelli locali, molto attivi in alcune province italiane, stia per arrivare la resa dei conti. A dire il vero le banche, quelle quotate, già da diversi anni stanno riservando ai loro azionisti amare sorprese per il progressivo emergere di una abnorme quantità di crediti in sofferenza che ha costretto molte di loro a procedere a corposi e anche ripetuti aumenti di capitale per ripristinare le soglie di garanzia richieste da una sempre esigente Bce. Le perdite di capitale per i soci, piccoli e grandi, sono state ingenti e questo ha pesato sulle finanze di tanti, se si considera che il comparto bancario è il più significativo di Piazza Affari e che per tutti gli italiani, almeno fino allo scoppio della bolla, la parola banca era di per sé sufficiente a rassicurare gli investitori e ad attirare capitali. Se dunque gli anni tra il 2008 e il 2015 hanno dato ampia occasione agli investitori per aprire gli occhi e capire meglio la situazione, per molti di loro il peggio deve ancora venire. Per cominciare ci sono le quattro banche di dimensioni medio-piccole ma punto di riferimento per tanti risparmiatori – le ormai note Banca Marche, CariFerara, CariChieti e Banca Etruria – in difficoltà e per le quali solo l’intervento studiato per l’occasione da Tesoro, Bankitalia e grandi banche ha impedito che a farne le spese fossero non solo i detentori di bond subordinati e gli azionisti (per i quali la perdita è stata totale) ma anche chi aveva sottoscritto i bond ordinari. Costoro si possono si possono considerare gli ultimi beneficiari dalle protezioni sistema: dal 2016, entrata in vigore la normativa europea sulla gestione degli stati di crisi degli istituti d credito, la regola sarà un progressivo coinvolgimento dei capitali di azionisti, sottoscrittori di bond e perfino correntisti per importi che eccedono la soglia dei 100 mila euro (il cosiddetto bail in). Un’altra categoria di investitori esposti con le banche locali, non certo più invidiabili dei precedenti, sono poi quelli che nel corso degli anni hanno colto l’invito a mettere i risparmi nel capitale di istituti di credito non quotati. Il valore di questi titoli era frutto non già di una ordinaria regola de mercato che prevede l’incontro della domanda e dell’offerta, con esiti a volte spiacevoli, ma di una più garbata valutazione sulla base di perizie da cui emergeva che il prezzo di questi titoli era sempre in crescita, anno dopo anno, a garanzia di una remunerazione complessiva di tutto rispetto e senza pericolo di cadute. Come quella, drastica, che si preannuncia invece ora che il meccanismo si è inceppato: il destino di queste banche è ora la quotazione in borsa, in occasione dell’ennesima, inesorabile ricapitalizzazione: gli effetti per i soci saranno pesanti. Con questi precedenti, promotori finanziari e private banker si apprestano a proporre ai clienti – alcuni reduci da disavventure come quelle descritte – che è giunto per loro il momento di spostarsi sull’azionario- Non semplice. Soprattutto sarà complicato far capire che in realtà quelle che avevano in portafoglio erano azioni a cui ci si era ingegnati di applicare un meccanismo che le facesse assomigliare a obbligazioni (staccavano anche dividendi) a valore crescente. Agli sventurati si tratterà ora di spiegare che le azioni funzionano in tutt’altra maniera.

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ENEL tra le aziende protagoniste del 2016 per Bloomberg businessweek

Scritto il 09.11.2015

Roma, 9 novembre 2015 - Enel è stata inserita dalla rivista Bloomberg Businessweek nella lista nelle 50 aziende mondiali da tenere d'occhio nel 2016. La rivista ha apprezzato l'incremento degli investimenti del Gruppo in mercati ad alta crescita, le Americhe e l'Africa, saliti al 48% nel piano industriale al 2019, per compensare il calo della domanda di elettricità in Europa. Enel è l'unica azienda italiana e l'unica utility elettrica nella lista. 'Siamo orgogliosi che il titolo Enel sia stato segnalato da Bloomberg Businessweek per il suo alto potenziale di crescita nel prossimo anno,' ha commentato l'Amministratore Delegato di Enel Francesco Starace. 'Si tratta di un significativo riconoscimento della strategia di Enel volta a capitalizzare le opportunità su tutti i mercati. Nelle aree con economie emergenti stiamo supportando un progresso sostenibile attraverso investimenti in energie pulite e nello sviluppo delle infrastrutture, mentre nei mercati più maturi il focus è sulla digitalizzazione, attraverso l'implementazione delle Smart Grid e altre soluzioni innovative'. Bloomberg Businessweek ha stilato la lista delle 50 aziende da tenere sott'occhio nel 2016, pubblicata in ordine alfabetico, sulla base di un'analisi effettuata dagli analisti di Bloomberg Intelligence, per identificare quelle società 'che affrontano cambiamenti impegnativi o sono posizionate per realizzare grandi guadagni nell'anno a venire'. La lista considera diversi fattori comprese le dinamiche di cambiamento industriale, cambiamenti delle prime linee manageriale o l'introduzione di nuovi prodotti. La lista delle 50 aziende da tenere d'occhio nel 2016 fa parte della pubblicazione Bloomberg Businessweek's The Year Ahead: 2016, un numero speciale di 132 pagine che fornisce una guida sulle aziende, le economie, i prodotti e gli innovatori che conteranno nel 2016. Oltre a questa lista, la pubblicazione include cinque sezioni che coprono i settori dell'economia, della tecnologia, della politica, dell'energia e del retail. La lista completa di Bloomberg Businessweek's si può trovare sul sito: http://www.bloomberg.com/graphics/year-ahead-2016/

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Strategie sugli energetici = Petrolio e climate change Strategie sugli energetici

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  • Consulenza finanziaria
Scritto il 07.11.2015

SOLE 24 ORE PLUS a pag. 9 di Vitaliano D'Angerio La super offerta di greggio potrebbe continuare per tutto il 2016: Prezzi in calo e possibili merger. Ecco i consigli dei gestori. Taglio delle emissioni di CO2, ulteriore calo dei prezzi del greggio grazie al ritorno in pista dell’Iran e, come conseguenza, possibili fusioni tra compagnie petrolifere. Questa coda del 2015 potrebbe riservare grandi sorprese nel mondo dei titoli energetici. Ecco dunque alcuni suggerimenti dei gestori per posizionarsi al meglio in tale settore. Fra i guru internazionali è stato il primo a esporsi in modo netto sulle conseguenze della riduzione delle emissioni di anidride carbonica che dovrebbe essere stabilita a Parigi, il mese prossimo, nel corso del Cop21, grande summit sul climate change. E’ Mark Carney, governatore della Banca d’Inghilterra. A lui fanno ora riferimento i gestori e gli strateghi delle case di gestione per mettere in guardia dagli effetti del clima sui titoli e sui patrimoni investiti. “Chi Ignora il cambiamento climatico lo fa a proprio rischio e pericolo”, scrive nel commento ai mercati del 3 novembre Christophe Bernard, capo degli strategist di Vontobel, società di gestione elvetica. Effetti destabilizzanti non solo per i giganti petroliferi ma anche per i fondi pensione e gli investitori privati, conseguente all’impatto sui depositi di greggio in caso di taglio alle emissioni di CO2, e sulle azioni delle società energetiche. Mario di Marcantonio, analista di Eurizon Capital esperto di materie prime, energia e infrastrutture, dipinge un quadro diverso per il dopo Parigi. “I prezzi attuali del petrolio, che viaggia intorno ai 47 dollari al barile, scoraggiano gli investimenti in energie rinnovabili. L’agenzia Usa per l’energia ha stimato in 53 trilioni di dollari la cifra necessaria per una completa transizione energetica da carburanti fossili a energie rinnovabili entro il 2035”. Alla fine la domanda dell’investitore è: che fare? “Noi prevediamo che la super offerta di greggio sia strutturale e durerà per l’intero 2016, complice anche il ritorno dell’Iran sul mercato dopo gli accordi sul nucleare. Per gli investitori le strade da intraprendere sono due – spiega Giordano Beani, gestore di Bnp Paribas Investment Partners -. Ci si può posizionare sui gruppi energetici a larga capitalizzazione che staccano robusti dividendi. Oppure, come seconda via, si può guardare alle aziende energetiche di media capitalizzazione: in molti casi i valori delle loro azioni sono calati del 60-70% a causa dell’andamento del prezzo del petrolio. Potrebbero quindi essere oggetto di merger (acquisizioni e fusioni tra società), visto che in alcuni casi quotano a valori inferiori rispetto alle loro riserve”. In questo secondo caso bisogna stare attenti, dice Beani , alle società medio-piccole in potenziali difficoltà finanziarie. Quindi, chi non ha competenze o tempo da dedicare, è meglio forse che punti su uno strumento come fondi o gli Etf

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I paradossi di Borsa e l`economia reale

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  • Mercati finanziari / economia
Scritto il 05.11.2015

SOLE 24 ORE a pag. 28 di Giacomo Vaciago Il 2015 sarà ricordato per un’evidente anomalia: quando escono cattive notizie sull’andamento dell’economia, le borse vanno meglio. Soprattutto quando le altrui economie vanno male, le nostre borse salgono. Come mai? A prima vista, nel mondo globale in cui da anni viviamo non dovrebbe essere così. Ad esempio, il fatto che da metà agosto le notizie che ci giungono sull’economia cinese siano in continuo peggioramento dovrebbe renderci più pessimisti, sia direttamente (per il ruolo della Cina sulle nostre esportazioni) sia indirettamente ( per il ruolo della Cina nell’export tedesco e quindi del nostro export in Germania). Se ciò non è avvenuto, vuol dire che il modo di ragionare dei mercati finanziari è un altro e passa attraverso la “funzione di reazione” che si assume guidare il comportamento della nostra Banca centrale. In altre parole, le borse assumono che la frenata dell’economia mondiale - che ci danneggia in termini di export, seppure ci sia utile in termini di minori prezzi delle materie prime importate – retroagisca sul comportamento della Bce, provocandone una reazione più espansiva (più liquidità e/o tassi più bassi) che può solo stimolare una domanda addizionale di titoli. Questa “ funzione di reazione” della Bce non era scontata ancora un anno fa, quando il Quantitative Easing fu deciso, superando le iniziali resistenze del blocco dei paesi conservatori raggruppati attorno alla Banca centrale tedesca, che ragionavano in una logica solo- europea. Adesso ad un anno di distanza, tutto ciò sembra normale e non riusciamo ad immaginare un mondo diverso, che sarebbe cioè caratterizzato dall’assenza di “backstop”. Un mondo in cui le cattive notizie sull’economia di un paese, facendo peggiorare le previsioni di un altro, potrebbero innescare pericolosi avvitamenti comuni. Nel corso del 2015, questo compito ha gradualmente attraversato l’Atlantico: passando dal Fed di Washington alla Bce di Francoforte, che si è così guadagnata un altro ruolo più generale e completo – di vera Banca centrale

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Vivere con i tassi sotto zero

Scritto il 29.10.2015

CORRIERE DELLA SERA a pag. 9 di Federico Fubini E’ almeno dal 1994 che l’Italia voleva entrare in questo club. In quell’anno, mentre tutti erano ipnotizzati dall’inedita sfida fra Achille Occhetto e Silvio Berlusconi, all’improvviso due politici tedeschi di nome Karl Lamers e Wolfgang Schauble pubblicarono un documento che infiammò e indignò l’intero Paese: i due, all’epoca consiglieri del cancelliere Helmut Kohl, proponevano un’Europa del “ nucleo duro”. Gli Stati del Mediterraneo ne sarebbero rimasti per il momento esclusi. Quel lungo momento in questi giorni è passato, almeno in base ai numeri e almeno per ora. Ieri il Tesoro ha venduto sul mercato Buoni ordinari con rendimento negativo dello 0,055%, se tenuti fino a scadenza fra sei mesi. Il giorno prima aveva assegnato titoli senza cedola per 1,75 miliardi, senza ad un interesse negativo dello 0,023% per chi li conservi fino alla fine del percorso fra due anni. Significa che oggi per la prima volta nella storia sul mercato si trovano grandi investitori disposti a perdere soldi, pur di prestarli a un fragile debitore da quasi 2.200 miliardi di euro come la Repubblica Italiana. E’ in questo senso che oggi il Paese è entrato a suo modo nel “nucleo duro” d’Europa. Si unisce a un club composto da Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Malta e Olanda, per i quali gli investitori sono pronti a pagare, pur di far credito su un orizzonte di 24 mesi. E’ il club dei tassi negativi, al quale ieri a fine pomeriggio per un soffio non si era unita anche la Spagna: I Bonos biennali rendevano appena lo 0,001% . In Europa esiste debito sovrano per centinaia di miliardi di euro che funziona come una tassa, anziché come un titolo che promette un guadagno sul capitale investito. La sola differenza è che questa è una tassa volontaria. Il creditore sceglie liberamente di sobbarcarsela perché pensa che qualunque altra soluzione sarebbe peggiore. Tutto ciò ricorda un’analisi di Groucho Marx, quando qualcuno chiese all’85enne comico New Yorkese che effetto fa invecchiare: “Sempre meglio dell’alternativa”, disse. Oggi anche molti investitori in titoli di stato la pensano così. L’alternativa attuale per centinaia d’istituti di credito nell’area euro sarebbe tenere centinaia di miliardi fermi dentro i propri conti presso la Banca centrale europea e pagare per questo una tassa ancor più elevata. In tempi normali, la Bce riconosceva un interesse positivo su quei conti correnti. All’inizio di quest’anno invece ha portato il “tasso sui depositi” (quello praticato sulle banche che parcheggiano la liquidità a Francoforte) fino a quota -0,20%. Per Deutsche Bank, Unicredit o Santander tenere fermo il denaro presso la banca centrale costa caro, e in futuro probabilmente ancora di più. Sei giorni fa il Presidente Mario Draghi ha lasciato capire che in dicembre la Bce potrebbe ridurre ulteriormente il tasso sui depositi e ha rimosso qualsiasi “pavimento”: non esiste più un livello sotto il quale i tassi sui depositi non possono scendere. Per questo a un banca conviene sempre di più investire su un titolo di Stato italiano così diffuso e abbondante sul mercato da essere oggi quasi l’equivalente di denaro liquido sotto un’altra forma. Se tiene un buono del Tesoro di Roma fino alla scadenza fra un anno, quella banca oggi perderà solo lo 0,035%. Se invece conserva lo stesso denaro immobile presso la Bce, perderà lo 0,20% e probabilmente in futuro lo, 0,30% o anche di più. D’altra parte l’inflazione è così bassa che questo tipo di rendimenti sotto zero non erode davvero il potere d’acquisto del denaro. Non solo: anche con rendimenti negativi alla scadenza i prezzi dei titoli di Stato salgono man mano che questi diventano più ambiti dalle banche perché la Bce sta aumentando la sua “tassa” sui loro depositi. Comprare e vendere nei momenti giusti può anche generare una forte plusvalenza. Funziona così il mondo al rovescio nel quale l’Europa e da ieri l’Italia vivono dopo la grande crisi.

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Piazza Affari, l`unica con 10 anni in rosso

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  • Mercati finanziari / economia
Scritto il 27.10.2015

SOLE 24 ORE a pag. 35 di Antonella Olivieri Però negli ultimi vent'anni i titoli industriali hanno sempre chiuso in positivo Piazza Affari è l’unica tra le principali 23 borse mondiali a essere ancora in territorio negativo da fine 2004. Mediamente è arretrata del 2,6% all’anno: ciò significa che l’ipotetico investitore che avesse puntato sul listino milanese in meno di 11 anni avrebbe visto il suo capitale ridursi di un quarto. I conti li ha fatti l’ufficio studio di Mediobanca nell’ultima edizione di “Indici e dati”, un’analisi dedicata ai mercati azionari. Dalla quale si evince che Shanghai, nonostante la brusca frenata dello scorso giugno che ha mandato in fumo il 35% della sua capitalizzazione, è ancora la Borsa più performante al mondo, con un progresso medio annuo del 14,1% da fine 2004 che avrebbe permesso di moltiplicare per 4,2 volte l’investimento iniziale. Anche l’Indonesia (+12,9 la media annua, moltiplicando per 3,7 volte l’investimento iniziale) e l’India con Bombay (11,1%, 3,1 volte) se la sono cavata bene. A inserirsi in mezzo ai listini emergenti, Zurigo che è salita del 10,7% all’anno, triplicando il chip iniziale. Il Messico ha viaggiato al ritmo del +10 all’anno, facendo meglio del Nasdaq che è andato avanti al passo del 9,6%. Corea, Johannesburg, Singapore, Malesia e Hong Kong, hanno fatto tutte meglio sia della regina Wall Street (+5,1%) sia delle paludate Borse del Vecchio continente con Francoforte a +5,5%, Londra +3,1% e Parigi +3% Ma l’industria paga Guardando più da vicino l’andamento di Piazza Affari e ampliando la retrospettiva agli ultimi vent’anni, si scoprono però che non tutti i settori si muovono all’unisono. Così, se nell’arco dei vent’anni le banche hanno concluso nove anni in rialzo e le assicurazioni 12 anni, i titoli industriali hanno fatto l’en plein vent’anni su venti. La performance media annua dell’industria di Piazza Affari negli ultimi vent’anni è stata di un più che onorevole +8,5%, che in termini cumulati si traduce in un + 404% rispetto al 137% del comparto bancario (+4,5% di media annua). Migliori e peggiori Da inizio 2014 a metà ottobre 2015 la Borsa italiana ha guadagnato il 18%, con tre titoli su 5 che hanno segnato variazioni di prezzo positive. I migliori del periodo: Mondo tv (+650%), Dsu Trieste effettuato igital Bros (+394%), DeLclima (+249%), La Doria (+187%), Biesse(+172%). I peggiori: Seat (-98%), Carige (-72%), Trevi (-68%), Mps (-63%) e KR Energy (-61%). Nel lunghissimo periodo vince sempre Generali, un investimento su Trieste effettuato all’inizio del 1938, senza neppure contare i dividendi, avrebbe portato a un rendimento reale, al netto dell’inflazione, del 4,7% annuo contro il -1,8% del listino generale. Tra i titoli continuativamente in vita dal 1984, il migliore è Intesa che nel periodo ha reso l’11,9% in media annua.

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